Dirigenti pubblici italiani, troppo costosi e poco produttivi
Dinosauri, così Corrado Giustiniani, giornalista de «L’Espresso», definisce i dirigenti pubblici italiani, nella sua ultima pubblicazione, intitolata appunto Dinosauri. Nessuna riforma ci libererà dai superburocrati di Stato, edita da Sperling&Kupfer.
Abbiamo posto qualche domanda all’autore, nel tentativo di comprendere perché la burocrazia italiana è un unico grande dinosauro, quali sono le ragioni che hanno condotto a questo stato di cose e quali possibili soluzioni si potrebbero adottare.
Cominciamo dalle domande più difficili: quanti sono e quanto guadagnano i dirigenti pubblici italiani? E il tetto di 240.000 € imposto dal Governo Renzi ha sortito l’effetto sperato?
Nel libro ho stimato circa 70mila dirigenti titolari di effettivi incarichi direttivi in tutto il pubblico impiego. Sulla carta i dirigenti sono oltre centomila di più, perché tali sono per definizione anche i medici che hanno vinto un concorso per entrare nel Servizio sanitario nazionale, mentre come dirigenti il Conto della Ragioneria generale dello Stato incasella anche i magistrati. Io ho cercato di considerare soltanto i “dirigenti che dirigono”: fra questi, un quarto dei medici, e cioè quanti sono effettivamente alla guida di strutture semplici o complesse, e una piccola quota dei magistrati. E mi è venuto fuori questo dato, che credo e spero attendibile. Quanto al tetto imposto da maggio del 2014 dal governo Renzi, esso ha inciso su non più di un centinaio di posizioni. Una decisione da apprezzare in linea di principio, ma anche da criticare perché ha creato un ingiusto appiattimento ai vertici: ragion per cui figure di primissimo piano, come il capo della Polizia o il Direttore generale del Tesoro, oggi guadagnano come un direttore generale del ministero dell’Ambiente o della Salute. Sarebbe stato meglio articolare il tetto in tre o quattro sottotetti, come si pensava che all’inizio il governo volesse fare.
Dalla lettura di Dinosauri, risulta un panorama italiano che si può sintetizzare così: enorme diversificazione degli emolumenti ai dirigenti pubblici a seconda dell’ente in cui operano, e un divario molto grande rispetto agli omologhi negli altri Paesi UE (e non solo). Quali potrebbero essere le ragioni di queste due caratteristiche?
Difficile rispondere. Per quali ragioni mai, lei mi chiede, un dirigente di seconda fascia dell’Inps guadagna quasi quanto un dirigente generale (dunque di prima fascia) del ministero dei Beni Culturali? E, all’interno dello stesso comparto ministeriale, perché un dirigente generale dei Beni culturali guadagna 80mila euro lordi l’anno in meno di uno del ministero della Salute: non c’è forse un unico datore di lavoro pubblico? Ad alimentare la giungla, nei ministeri, è stata la costituzione di fondi autonomi destinati a finanziare la quota variabile della retribuzione: alcuni sono cresciuti molto, altri poco. Allargando il confronto al parastato, alle regioni, alle agenzie, alle authority, c’è da concludere che paghiamo lo scotto di una visione corporativa, particolaristica, di tutto ciò che è pubblico. E perché mai i dirigenti apicali del ministero degli Esteri inglese guadagnano meno degli apicali della Farnesina? Il Foreign Office è forse meno importante del nostro ministero degli Esteri? Il costo della vita a Londra è più basso che a Roma? E come mai i nostri ambasciatori sono più pagati del mondo? Non c’è una risposta: è un semplice assurdo. Quello che si può dire è che il boom retributivo dei burocrati pubblici italiani è avvenuto tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo, con i contratti dei dirigenti favoriti dal governo D’Alema e finanziati dal governo Amato.
Particolarmente emblematici, sebbene per ragioni differenti, sono i casi del Tg1, con 1 dirigente ogni 2,8 giornalisti (quasi un record) e della Regione Sicilia, a proposito della quale lei parla di un vero e proprio «scandalo al cannolo». Quanto incidono mala politica e gestione privatistica della cosa pubblica in situazioni come queste?
Cominciamo dalla Sicilia: in una notte del 2000, una legge ha improvvisamente promosso alla qualifica di dirigenti ben mille funzionari. Più evidente di così, l’inciucio tra mala politica e dirigenza non può apparire. Oggi la Sicilia ha 1.800 dirigenti, una quantità pari a quelli di tutte le Regioni a statuto ordinario messe insieme. Un’altra legge indecente ha consentito ai dirigenti top siciliani di andare a casa a 53 anni, per non subire l’effetto del tetto Renzi sulle pensioni. Politica e lottizzazioni decidono le carriere in Rai e hanno fatto proliferare, almeno fino ad oggi, la specie dei “giornalisti dirigenti”, denominazione che nell’azienda pubblica si assume dalla qualifica di redattore capo in su. Al Tg1, un caso limite, vi sono ben 34 redattori capo, un direttore e cinque vice. Ma vicedirettori e redattori capo abbondano in tante altre testate dell’azienda finanziata dal canone dei cittadini.
Dinosauri non riferisce solo degli alti compensi, ma richiama l’attenzione del lettore anche sull’uso di una lingua fumosa e antiquata. È cambiato qualcosa negli ultimi anni, o la pubblica amministrazione resta detentrice di un linguaggio la cui chiave caratteristica sembra essere la complicazione?
Purtroppo non è cambiato nulla. Anzi, il bombardamento di emendamenti dell’ultima ora che le leggi “omnibus” subiscono in Parlamento ne ha addirittura peggiorato la qualità. Invano ministri come Sabino Cassese e Franco Bassanini provarono, con Codici e Manuali di Stile, a suggerire il linguaggio della divulgazione. C’è un pactum sceleris tra la politica che non ha l’interesse a essere chiara e la dirigenza, di formazione giuridica, che si crogiola nel linguaggio astruso e sembra non essere in grado di fare altrimenti. Così gli uffici legislativi partoriscono i loro mostri. Nel capitolo che ho intitolato con un ossimoro, La trasparenza opaca, lancio una proposta provocatoria, quella dei “mediatori linguistici”, professori, giornalisti e altre professionalità ancora, che mettano in italiano divulgativo almeno i testi del governo, prima che affrontino l’iter parlamentare.
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In un periodo in cui si parla sempre più spesso di output, open data, performance e target, la burocrazia italiana è effettivamente cambiata? Oppure possiamo ancora dire che, in molti casi, più che al servizio del cittadino, la burocrazia assume una posizione difensiva, di autotutela?
Purtroppo è proprio così. Stravince la difesa. Manca una cultura del risultato, prevale nettamente la cultura dell’adempimento, le scuole e i concorsi non sfornano i dirigenti di cui abbiamo bisogno e le riforme della pubblica amministrazione, cinque in poco più di vent’anni, con quella in viaggio, non hanno inciso.
E a proposito di performance, lasciano un po’ perplessi le conclusioni dell’Anac (l’Autorità anticorruzione) che definisce «irrealistici ed in contrasto con la percezione dei cittadini» gli esiti delle valutazioni delle performance. Eccessivo buonismo da parte di chi valuta, oppure quali altri motivi sono ravvisabili?
Da svariati anni si celebra la farsa dei “premi di risultato”, che dovrebbero essere un riconoscimento per un aumento della produttività, per un miglioramento del servizio a favore dei cittadini, e invece vengono erogati indistintamente a tutti i dirigenti, e nel 90 per cento dei casi, come per l’appunto ha osservato l’Anac, nella misura quantitativa più elevata. Di fatto accade spesso che i dirigenti si fissino gli obiettivi da se stessi, commisurati allo svolgimento della normale routine più che a concreti progressi di cui il paese si possa avvantaggiare. Questi obiettivi vengono poi infilati in un complicato albero della performance che riguarda l’intera struttura ministeriale e che non garantisce alcuna performance.
«La conclusione, purtroppo, è che quel contesto culturale non si presta a criteri selettivi», così Gianfranco Rebora citato in Dinosauri. Sembra quasi l’ammissione di una sconfitta. È davvero impossibile pensare a una riforma strategica della pubblica amministrazione in Italia?
È in arrivo la riforma Renzi-Madia, che promette valutazioni più serie del dirigente, contratti più brevi, una maggiore mobilità, creata dal cosiddetto “ruolo unico” del dirigente, per cui quando – poniamo – un dirigente del ministero dell’Agricoltura scade nel suo incarico, può essere preso al suo posto uno del ministero della Giustizia, una fascia unica, con la fine della distinzione tra dirigenti generali e di seconda fascia, e tante altre novità. Resta il fatto che il ruolo unico era già stato introdotto quindici anni fa da Bassanini e poi soppresso da Frattini, e che ogni riforma comporta lunghi adattamenti e momentanee paralisi. Il futuro, purtroppo, è un’incognita. Ma nell’ultimo capitolo di Dinosauri, intitolato Mettersi in gioco, si suggeriscono diversi rimedi, ad esempio su come selezionare i candidati.
Qual è la responsabilità della classe politica in tutto questo?
La responsabilità della classe politica è ovviamente grande, ma attenzione, non sia questa la scusa per coprire l’inefficienza della nostra alta burocrazia, che percepisce di più e rende di meno di quelle dei Paesi con cui ci confrontiamo. Dal 1993 la burocrazia ha piena autonomia di gestione: la politica fissa semplicemente gli obiettivi, sono i dirigenti che debbono realizzarli. È questo il principio rivoluzionario contenuto nel famoso Decreto legislativo numero 29. Rivoluzionario nelle attese, patetico nelle realizzazioni.
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