Dino Buzzati racconta la morte di Marilyn Monroe
Era morta da appena tre giorni Marilyn Monroe, quando Dino Buzzati pensò di dedicarle un racconto, un vero e proprio omaggio alla diva hollywoodiana per eccellenza.
Apparso sul «Corriere della Sera» del 7 agosto 1962 con il titolo All’alba, il testo di Dino Buzzati offre un ritratto dolce e doloroso di Marilyn Monroe negli ultimi istanti di vita. Ovviamente con uno stile che è quello tipico di Buzzati.
Un genio, che poco prima dell’alba girava rastrellando l’estrema landa per raccogliere le anime appena giunte e avviarle alla grande porta, avvistò da lontano qualcosa di chiaro proprio ai piedi della muraglia che recinge la città dei morti.
Avvicinatosi, trovò una giovane e bellissima donna nuda apparentemente addormentata.
Si inginocchiò a toccarla.
Non era spirito, era tenera e tiepida carne.
Allora, prendendole un polso, la scosse per ridestarla. Con un gemito lei si stirò languidamente e balbettò come ubriaca:
– Oh lasciatemi dormire.
Il genio con molti riguardi appoggiò la testa sul petto della creatura.
Sì, il cuore batteva ancora, ma lentamente; e il ritmo si faceva sempre più fioco e spaziato.
– Su, svegliati – le ordinò. – Non sei malata, non sei ferita, sei giovane, sei meravigliosamente bella. Non ho mai visto nessuna bella come te.
Su, muoviti, corri, torna indietro. Il mondo è tuo.
Ci deve essere uno sbaglio. Assolutamente non puoi restare qui.
Con la voce ancora impastata di sonno lei disse:
– Basta, quante volte me le sono sentite ripetere queste storie. Lasciatemi dormire.
Intanto, da varie direzioni erano giunte alcune anime, saranno state una dozzina.
Incuriosite, si erano fatte intorno ed ascoltavano.
Finché una di esse avvertì:
– Non vorrei sbagliarmi, ma questa è Marilina Monroe.
– Chi? – fece il genio?
– Marilina Monroe, la conoscerai, spero.
– Io, veramente – disse il genio imbarazzato – io non saprei… io lavoro sempre da queste parti… saranno trent’anni che manco dal mondo.
Commenti intanto si intrecciavano fra le anime che formavano ormai, coi nuovi arrivati, una piccola folla.
E lo strano era questo: ciascuno di quei morti aveva, ovviamente, i suoi pensieri e i suoi rimpianti, eppure lo spettacolo di quella ragazza nuda, così rosa e pura, faceva loro dimenticare i guai.
– Ma è ancora viva – dicevano – …è sana, è ricca, è famosa, ha tutto quello che vuole nella vita, non può stare qui con noi, deve esserci un equivoco, bisogna fare qualche cosa.
Tu, genio, perché non ti sbrighi? Perché non la riporti indietro?
E il genio, sebbene un po’ confuso perché non aveva mai tenuto fra le braccia una giovane donna nuda soprattutto di tanta bellezza, sollevò da terra Marilina e librandosi a fior di terra la portò via in direzione dell’orizzonte, dove la landa dei trapassati si perde nella nebbia e di là comincia il mondo dei vivi.
Il genio, per quanto genio, era alquanto mingherlino.
Dove trovava le forze per sostenere di peso un simile fusto?
Semplice: fin dal primo istante se ne era perdutamente innamorato.
E poiché l’amore vuole la gioia altrui anziché la propria, il genio non si curava di sé, voleva soltanto salvare quell’incantevole corpo: se Marilina avesse continuato a dormire fino a che il cuore non si fosse fermato, di Marilina non sarebbe rimasta che l’anima, la quale ha ben poche attrattive sensuali, e il resto, nel giro di pochi giorni si sarebbe trasformato in cenere.
Fra le braccia del genio Marilina dormiva, ma di tanto in tanto, come in trance, rispondeva alle sue pressanti interrogazioni. Cosicché il genio poté conoscerne l’indirizzo, riportarla a casa sua e deporla sul letto, dove la bella continuò imperterrita a dormire.
Nella camera la luce era accesa.
Guardandosi intorno, il genio, benché poco pratico del mondo, vedendo tutte quelle boccette, quei flaconi, e tubetti di medicinali, indovinò cosa era accaduto e fu preso dall’orgasmo.
Marilina si era avvelenata e, se non interveniva un medico, non c’era più niente da fare.
Ma, più importante ancora del medico, era persuadere la ragazza che sulla terra dopotutto si sta bene, e uccidersi è una solenne bestialità. Nel suo caso poi!
– Marilina! – esclamò il genio facendo la voce grossa – Vuoi svegliarti o no? Adesso comincio a perdere la pazienza.
– Ma si può sapere chi sei? – chiese indispettita Marilina, alzando la testa dal cuscino.
– Non ha importanza chi sono – disse il genio – quello che conta è che tu chiami subito un medico perché se non ti fanno una bella lavanda gastrica qui mi hai l’aria di andartene dritta all’altro mondo.
– E se proprio questo fosse la mia intenzione?
– Ma va! Una creatura come te! Uomini e donne si scannano addirittura per ottenere un decimo, un centesimo di quello che tu hai. E tu vorresti andartene abbandonando tutto?
– Precisamente. Sono stufa.
– Intanto – disse il genio, forse un po’ troppo didascalico – quello che tu hai tentato di fare non è onesto. Tu, uccidendoti defrauderesti gli uomini di uno dei loro più cari sogni, che poi adesso è straordinariamente di moda.
Il sogno della gloria, da cui derivano tutte le altre soddisfazioni della vita, la ricchezza, l’amore, il lusso, la potenza, perfino la salute.
Gli uomini ti hanno messo su questo tuo favoloso piedistallo perché tu ci rimanga e ti lasci adorare. Se te ne vai, tu vieni meno ai patti. E poi…poi si può sapere cosa ti manca?
A quanto ho sentito dire, sei perfino intelligente.
– Su, da bravo, signor genio – piagnucolò Marilina, la testa cascandole da una parte e dall’altra per il sonno – adesso vattene e lasciami dormire. Tu sapessi come sono stanca.
– Bene – insistette l’altro – ti faccio una proposta che mi sembra ragionevole.
Io adesso ti porterò a fare un piccolo viaggio nel futuro. Vedrai cosa ti aspetta.
Vedrai che vale la pena vivere.
– E quanto tempo ci vuole?
– Niente, frazioni di secondo. È una delle poche cose che noi geni sappiamo fare decentemente.
– E dopo?
– Dopo farai quello che vuoi. Dopo, giuro che ti lascerò in pace.
Così, Marilina indossò una vestaglia, si attaccò con una mano al genio e via, attraverso la notte della California che stava per finire, via con la velocità di un satellite, e di sotto, a una distanza che via via aumentava, sfilavano i lumi delle città, le masse nere dei boschi, le fosforescenti anse dei fiumi.
E poi l’oceano nero che si perdeva nell’occidente.
D’improvviso discesero a tuffo.
Il genio la condusse sul bordo di un finestrone e la invitò a guardare dentro.
Era una grande e sontuosa sala di spettacoli e stavano proiettando un film a colori.
Sullo schermo Marilina vide Marilina che singhiozzava in modo meraviglioso. Era la scena finale di un dramma o qualcosa del genere.
Sì udì una bella frase musicale, l’immagine sullo schermo si dissolse e si accese la luce.
Gli spettatori avevano tutti gli occhi lucidi e con comiche manovre si affrettavano a nascondere i fazzoletti. Quindi esplose un applauso che sembrava una cateratta.
– Hai visto? – disse il genio. – Questo ti aspetta fra quattro anni.
– E il resto?
– Il resto come?
– Il resto. Voglio dire la mia vita. Continuerà come adesso? Sempre sola?
– No, no, ti risposerai.
– Sempre sola, però.
– Su da brava, facciamo un saltino avanti, adesso ti farò vedere il 1972.
Fecero un altro volo, si appollaiarono al finestrone di un altro palazzo.
E dentro c’era un magnifico salone pieno di gente ben vestita, vi si stava svolgendo un ricevimento e a un tratto tutti si misero a battere le mani ed ecco sul palco avanzare ancora lei, Marilina, un po’ meno fresca ma sempre bellissima.
E un signore importante le consegnava una statuetta d’oro.
– Ammetterai – disse il genio – che queste sono belle soddisfazioni.
– Ma la mia vita? – chiedeva lei – Continuerà come prima? Io sarò sempre sola?
– No – spiegò il genio.
– Vedi quel magnifico giovanotto che in questo istante sta abbracciando Marilina? Ti piace? Scommetterei di sì. Quello è il tuo quinto marito. Del resto, come vuoi essere sola se migliaia di uomini si innamorano giornalmente di te? Io stesso, ti devo confessare…
– Oh povero il mio genio – fece Marilina con un amaro sorriso – come si vede che tu ne capisci poco della nostra vita. Essere amati non serve. Per non essere soli c’è un solo segreto: bisogna essere capaci di amare.
– E tu?
– Io… Io… – le parole le fecero un nodo alla gola. Non disse altro ma scuoteva malinconicamente la testolina, e due lacrime le rigarono le guance.
– No, no, io ti devo salvare – fece rabbiosamente il genio, e la trasse via, galoppando su per il futuro.
E dovunque incontravano Marilina trionfante, anche se ormai un poco appassita.
Adesso non celebravano più la sua bocca e i suoi seni, adesso la proclamavano la più grande attrice vivente.
E dovunque c’erano feste, ricevimenti, castelli, ville, panfili. Ma quando Marilina faceva atto di voler entrare nelle sue future dimore per vedere che cosa c’era dentro, il genio la trascinava via perché sapeva benissimo che dentro c’erano maggiordomi, camerieri, cameriere, fiori, cani di razza e tutto ciò che si può desiderare al mondo, ma di bambini non ce n’era neppure uno e in una bellissima camera azzurra al primo piano, accanto alla camera di lei, si trovava ogni volta una culla, ma la culla era sempre deserta.
E finalmente, in una villa che sembrava una reggia, trovarono Marilina già vecchia, una graziosissima vecchietta che era nel suo genere un amore, ma negli occhi era facile leggere una squallida e arida solitudine, nonostante le meraviglie e gli onori che la contornavano.
– Hai visto? – fece a questo punto Marilina – hai visto, amico mio, che non ne vale la pena?
Lui non ebbe il coraggio di insistere.
Tenendola per mano, ridiscese le vertiginose scale del futuro, in un batter d’occhi la portò nella sua stanza, dove Marilina, toltasi la vestaglia, si gettò sul letto con l’evidente intenzione di riprendere il fatale sonno interrotto.
Ma il genio, che assisteva, faceva una faccia così addolorata che Marilina ne ebbe pietà, e sorrise.
Sì, soltanto per lui avrebbe fatto il sacrificio, avrebbe rinunciato alla partenza, avrebbe ricominciato la vita.
Lentamente, perché il torpore la stava di nuovo invadendo, tese una mano verso la cornetta del telefono.
Fu colto però dalla pietà anche il genio. Il quale fece un affettuoso cenno di saluto con la destra «Dio sia con te, povera ragazza».
E svanì come un fantasma, mentre dalle finestre entravano le prime luci dell’alba. Marilina lo vide sparire.
Restò là, immobile, con la mano sul telefono e si lasciò portare via, scivolando, nei gorghi neri del sonno.
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