“Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica”: educare sì, partecipare sempre
Era il 26 aprile del 1975, quando il GISCEL, un gruppo costituitosi all’interno della Società di Linguistica Italiana, approvò definitivamente un documento che avrebbe dovuto cambiare in toto il mondo della scuola e non solo: le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica. Redatto da Tullio De Mauro in persona, dopo mesi e mesi di riunioni e interventi collettivi, il documento si pose e si pone tuttora in forte contrasto e aperta rottura con la pedagogia tradizionale, causa, nella sua lacunosità e parzialità, e forse ingenuità, di evidenti discriminazioni ai danni delle classi sociali meno facoltose
«[…] Essa ha svelato – si legge nella settima tesi- e svela tutta la sua […] inefficacia soltanto nel momento in cui si confronta con l'esigenza degli allievi provenienti dalle classi popolari, operaie, contadine. A questi, l'educazione tradizionale ha dato una sommaria alfabetizzazione parziale (ancora oggi un cittadino su tre è in condizione di semi o totale analfabetismo), il senso della vergogna delle tradizioni linguistiche locali e colloquiali di cui essi sono portatori, la «paura di sbagliare», l'abitudine a tacere e a rispettare con deferenza chi parla senza farsi capire. Senza colpa soggettiva e senza possibilità di scelta, molti insegnanti, attenendosi alle pratiche della tradizionale pedagogia linguistica, si sono trovati costretti a farsi esecutori del progetto politico della perpetuazione e del consolidamento della divisione in classi vigente in Italia. Senza volerlo e saperlo, hanno concorso ad estromettere precocemente dalla scuola masse ingenti di cittadini (ancora oggi 3 su 10 ragazzi non terminano l'obbligo, e sono figli di lavoratori)».
De Mauro redige il testo nel ’75, a più di un secolo dall’Unità d’Italia e non all’indomani della nascita dello stato unitario. I dati, quindi, sono ancor più sconvolgenti: l’analfabetismo è dilagante; la scuola non valorizza l’individualità dei suoi allievi, ma la reprime – dimostrando di non aver affatto recepito la magistrale lezione dei primi anni Venti di Giuseppe Lombardo Radice e Giovanni Gentile –; lo squilibrio sociale, per di più, è perpetuato, anche se inconsapevolmente, in e da un sistema che avrebbe dovuto estirparlo.
Se a questo si aggiunge che le linee programmatiche esposte nelle Dieci tesi non sono state recepite completamente ma accantonate in diversi casi, e in altri sembrano persino sconosciute, il giudizio sul sistema scuola non può che essere negativo. Una grande preoccupazione per la situazione dell’educazione linguistica in Italia, vista in termini molto più ampi (e, cioè, connessa a questioni di una certa importanza, come il pieno e libero sviluppo di ogni singola personalità) emerge chiaramente decenni e decenni dopo, quando, terminata la giornata di studio A trent’anni dalle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, Adriano Colombo sottolinea che:
«Un’indagine compiuta dal GISCELin vista della Giornata tra quasi settecento insegnanti di Italiano ha mostrato che più della metà di loro non aveva mai sentito parlare delle Dieci tesi(il 18% le aveva lette, un altro 22% ne aveva una qualche idea). Preoccupa anche che più della metà degli interpellati avesse più di cinquant’anni: questo significa che la maggioranza dei colleghi che oggi il GISCELriesce in qualche modo a raggiungere tra pochi anni sarà in pensione; c’è difficoltà a incontrare le giovani generazioni, anche se un certo lavoro si sta facendo attraverso le SSIS e i corsi di laurea in Formazione primaria».
A meno di una decina d’anni dal 2005 la situazione non dovrebbe essere cambiata, non troppo almeno. Eppure, sono strettamente connessi al lavoro sulle Dieci tesi il carattere di un gruppo senz’altro rivoluzionario e la forte esigenza di capovolgere un sistema che, invece, fatica ancora a rinnovarsi e a lasciare alle spalle il passato, evitando di costruire un futuro che impedisca ai nuovi Giovanni Papini di invocare la chiusura delle scuole.
La necessità di cambiare è così forte che sempre nel 2005 si auspica l’inserimento di altre due tesi nel documento, l’undicesima e la dodicesima, nonché una rivisitazione del testo in chiave marcatamente moderna; proposta, quest’ultima, bocciata in pieno.
«L’ipotesi – scrive, infatti, Colombo –non ha trovato seguito in incontri successivi del GISCEL, in cui si è affermata l’opinione che le Dieci tesi sono un testo “storico”, […] che deve entrare a far parte della cultura professionale degli insegnanti così come è stato scritto».
L’attacco alla pedagogia tradizionale è portato avanti nella settima e nell’ottava tesi, ferme nel condannare l’inefficacia di un insegnamento eccessivamente normativo e arroccato su regole cristallizzate e, di fatto, inutili; ovviamente ignaro di questioni di ordine teorico, sociologico, psicologico, storico e non solo, necessarie, però, per il pieno sviluppo e potenziamento delle abilità linguistiche; nell’ottava tesi, a tal proposito, si parla persino dell’importanza, scientificamente provata, dello sviluppo psicomotorio e della «maturazione ed estrinsecazione di tutte le capacità espressive e simboliche».
Anche senza una rassegna di tutti i propositi del GISCEL, insomma, pare evidente che le questioni linguistiche, a partire dalla classica e ancora dibattuta “questione della lingua” del ‘500, non sono mai solo e soltanto linguistiche. È la stessa conclusione delle Dieci tesi a metterlo in evidenza, richiamando le parole di Antonio Gramsci:
«Ogni volta che affiora in un modo o nell'altro la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare nazionale».
Parafrasando De Mauro, Colombo ha messo in evidenza, per di più, che «una compiuta educazione linguistica è tale se si completa con la progressiva maturazione di un atteggiamento critico consapevole verso il sistema dell’informazione».
La forza di tutto il documento sta nell’incipit della settima tesi:
«[…] Dal 1859 esiste in Italia una legge sull’istruzione obbligatoria, che, dal decennio giolittiano, ha cominciato a trovare realizzazione effettiva a livello delle primissime classi elementari. Masse enormi sono passate da sessanta, settant’anni attraverso queste classi. La pedagogia tradizionale ha saputo insegnare loro l'ortografia? No. Essa ha sì puntato sull'ortografia tutti i suoi sforzi. Ma ancora, oggi, in Italia, un cittadino su tre è in condizioni di semianalfabetismo. E non solo. L'ossessione degli «sbagli» di ortografia comincia dal primo trimestre della prima elementare e si prolunga (e questa è già un'implicita condanna di una didattica) per tutti gli anni di scuola. […] Come non insegna bene l’ortografia, così la pedagogia tradizionale non insegna certo bene la produzione scritta. […] E non si creda che l’oscurità risponda sempre e soltanto a un'intenzione politica, all'intenzione di tagliar fuori dal dibattito i meno colti. Un'analisi di giornali di consigli di fabbrica mostra che in più d'uno il linguaggio non brilla davvero per chiarezza. […] L’oscurità, i periodi complicati sono il risultato della pedagogia linguistica tradizionale».
Ma non solo: anche nella discussa, ma indiscutibile, valorizzazione dell’individuo e dei suoi errori, da intendersi non più come orribili deviazioni rispetto all’italiano standard (talvolta, a dire il vero, alternative possibili, ma ignorate, e soprattutto grande strumento per studi e indagini di tipo linguistico e neurolinguistico); bensì, essenza stessa di qualsiasi tipo di percorso, in questo caso di quello scolastico.
«La vecchia pedagogia linguistica – scrive Tullio De Mauro – era imitativa, prescrittiva ed esclusiva. Diceva: “Devi dire sempre e solo così. Il resto è errore”. La nuova educazione linguistica (più ardua) dice: “Puoi dire così, e anche così e anche questo che pare errore o stranezza può dirsi e si dice; e questo è il risultato che ottieni nel dire così o così”. La vecchia didattica linguistica era dittatoriale. Ma la nuova non è affatto anarchica: ha una regola fondamentale e una bussola; e la bussola è la funzionalità comunicativadi un testo parlato o scritto e delle sue parti a seconda degli interlocutori reali cui effettivamente lo si vuole destinare, ciò che implica il contemporaneo e parimenti adeguato rispetto sia per le parlate locali, di raggio più modesto, sia per le parlate di più larga circolazione».
L’elasticità della nuova pedagogia, pilastro indiscusso dell’educazione linguistica democratica, non va confusa con incompetenza o eccessiva benevolenza; al contrario: sicuramente più preparato e pronto rispetto all’eterogeneità degli aspetti che coinvolgono l’insegnamento, il docente punta alla funzione ultima della lingua, la sua potenza comunicativa, presupposto indispensabile, tra l’altro, di una democrazia concreta.
Soltanto in una comunità in cui tutti sono in grado di farsi intendere e di intendere, parlando o scrivendo, infatti, possono esistere davvero il contributo del singolo e la condivisione. L’esercizio delle capacità linguistiche – precisano proprio per questo motivo le Dieci tesi – non va mai perseguito come fine a se stesso, ma come strumento di una «più ricca partecipazione alla vita sociale e intellettuale: lo specifico addestramento delle capacità verbali va sempre motivato entro le attività di studio, ricerca, discussione, […] produzione individuale e di gruppo».
Quanto della rivoluzione del ’75 nutre davvero l’attuale sistema scolastico?
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