Dieci storie e il bisogno di verità. “Dov’è casa mia” di Davide Coltri
Dov’è casa mia nasce dalle stampe di minimum fax a marzo di quest’anno. Davide Coltri, autore e insieme interprete dei suoi personaggi, raccoglie in queste pagine dodici racconti cuciti sulle proprie esperienze personali lungo il sentiero delle emergenze umanitarie a Beirut, città dove attualmente vive, e quelle del suo passato in altre terre in cui il colore del sangue si ricorda anche nei vessilli nazionali: Turchia, Iraq, Siria, Nepal, ecc.
Il titolo scelto per l’opera è anche quello che troviamo, in forma interrogativa, al suo interno per il racconto di chiusura e che sembra significare la chiave di lettura dell’intera opera. Qui l’autore ci proietta al 4 ottobre del 2013, a Dohuk, nel nord dell’Iraq, durante la sua prima missione umanitaria; in questo luogo oggi abitato da curdi e considerato autonomo dopo la Guerra del Golfo, in questo luogo organizzato senza alcuna pianificazione logica, conosce Kaniwar che lo aiuta a pronunciare il proprio nome con una traduzione che la dice lunga: «In curdo war significa “casa mia” e kani vuol dire “dov’è?”».
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Inizia così una storia dentro un contesto in definizione, in cui lo Stato Islamico «non esisteva ancora, o meglio si nascondeva dietro altre sigle ed era meno potente» e «la risposta umanitaria nel Kurdistan iracheno era agli inizi».
L’Ong di cui fa parte Coltri porta avanti il progetto di costruire una scuola vicina a un futuro centro ricreativo, nello spazio dove i piccoli profughi siriani al momento giocano a rincorrersi fra i detriti. Mentre tutto sembra procedere per il meglio, inizia una lunga contesa tra il Ministero delle Infrastrutture curdo-iracheno e l’impresa turca incaricata di costruire nuovi centri abitativi a Dohuk.
Intanto l’amicizia con Kaniwar si stringe, il protagonista-autore ne conosce la madre e tutta la numerosa famiglia. Passano due anni, la scuola si costruisce ma, poco a poco, quella famiglia comincia a smembrarsi in nome di una speranza: una vita migliore fuori dall’Iraq e lontano dall’Isis che verrà.
Di quel legame resteranno i bei ricordi dei pranzi a base di pietanze curde, dei brindisi con l’acqua santa della Mecca, del sogno di un viaggio verso un paese dell’Europa, un paese che, come per esempio la Germania della Merkel, accogliendo, tenterà di rispondere a quella domanda iniziale: Dov’è casa mia?
La particolare risonanza emotiva che si scatena leggendo la raccolta è innescata, tra l’altro, dalla coraggiosa scelta da parte dell’autore della prima persona in tutti i racconti: perché non sono veri soltanto gli avvenimenti sviscerati nelle storie ma anche gli occhi di chi li ha vissuti per raccontarli.
Così conosciamo la giovane curda siriana Khalat che vola a Damasco spinta dalla gioia di frequentare i corsi universitari; ne percepiamo subito la confusione durante i primi mesi lontano da casa quando realizza che il propagarsi di guerriglie civili la costringeranno a tornare nella città d’origine. Qui, qualche tempo dopo, dovrà dire addio al fratello ucciso per essersi ribellato con un semplice diniego all’ordine di un suo superiore di sparare su una folla di giovani contestatori.
Allora percepiamo il suo dolore tenuto a bada dal coraggio. Il coraggio di chi non indosserà mai un hijab. Di pagina in pagina, la vita di Khalat si fa piena di tensione come gli scontri armati che dilagano anche nella sua città e che la forzano a varcare un confine dopo l’altro insieme alla famiglia; tra affanni, paure e sofferenze la ragazza riuscirà a sopravvivere a quei giorni di delirio grazie alla propria forza e caparbietà ma i suoi sogni li leggiamo già al passato:
«Andavo all’università, sognavo di fuggire col professore di francese e di innamorarmi di un ragazzo appassionato di Prévert e Rimbaud, sognavo di diventare una poetessa famosa, volevo fare l’insegnante o la giornalista e scrivere lettere ai miei genitori da un luogo lontano…».
Nello scontro-confronto con una realtà imbevuta di dolore, violenza, sopraffazione, ingiustizie, morte, Davide Coltri continua a scrivere e a interrogare le coscienze; attraverso i suoi dodici “io narrante” ci apre a uno storico di alcune giornate autobiografiche con la consapevolezza, dichiarata nella sezione Nota dell’autore, che questa narrazione non è una cronaca oggettiva ma l’«espressione estetica» di un bisogno di verità. Guardando oltre quelli che l’autore stesso descrive e definisce con il termine “scoramenti”, ciò che vediamo è una realtà ancora presente che pochi uomini hanno la robustezza e il coraggio di rivelare a sé e al mondo tutto. Ci sono uomini e donne e bambini e vecchi, condannati a essere profughi per nascita; individui che scelgono la coerenza e la giustizia perché distinguono il bene dal male e per questo calpestati e condannati. Donne che lottano in nome della vita e terroristi che lottano senza un ideale.
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E, nel mezzo, ci sono gli operatori umanitari che mettono la propria vita al servizio dei più deboli, per poi vedere sorgere almeno una scuola, almeno un ospedale, almeno una casa, fuori da quel “campo”.
Per la prima foto, copyright: Valerie Khalil su Unsplash.
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