Dialogo con Antonio Scurati sul suo ultimo romanzo “La seconda mezzanotte”
Antonio Scurati è uno dei pochi scrittori italiani a generare immancabilmente scompiglio con i suoi libri e con le sue idee. Pronto a difenderle anche e soprattutto se appaiono contrarie al bisogno comune di non indugiare nel dubbio, preservando così le muraglie di certezze radicate e rassicuranti che ergiamo alle nostre spalle, Scurati ci impone spesso di guardare ciò che ci viene proposto giornalmente dai media come la “faccia malata del mondo”: la violenza, il sopruso, l’orrido e il perverso in tutte le sue sfaccettature. Quasi potesse bastare questo continuo riflesso di “un noi stessi peggiore”, propinatoci a piccole e continue dosi dai media, a salvarci, sottraendoci a un’insopportabile verità: il Male. Molto spesso sembra essere questo il protagonista dei romanzi di Scurati, l’inguardabile, affascinante, apparentemente semplice male, che l’autore contamina con reiterate iniezioni di realtà, della peggiore realtà, spargendolo come chicchi di grano nero in mezzo alle nostre vite.
Anche nel suo ultimo romanzo, La seconda mezzanotte, Antonio Scurati sembra utilizzare questa tecnica come architrave portante del suo stile narrativo, tanto che a volte può sembrare che la vorace curiosità dell’autore verso tutto ciò che ci circonda (e potrebbe presto circondarci) cristallizzi il flusso narrativo, pur di esplorare ogni infiltrazione di reale che trova spazio nella storia che egli stesso ci racconta. Come minuscoli fori nelle dighe costruite dai nuovi padroni di una Venezia intrappolata in un oscuro medioevo futurista (siamo nel 2092), la realtà del passato (la nostra) si infiltra a piccole dosi costanti ed inesorabili nel racconto di novelli gladiatori a cui è stato dato il compito di distrarre la moltitudine di un nuovo agonizzante impero. L’idea interessante che sottende alla storia è che da questi fori penetra la melma distruttiva che l’essere umano ha nutrito, ma è sempre da uno dei fori che inizia la possibile redenzione dell’uomo, attraverso un novello Spartaco (di nome e di fatto), che lotta per la libertà di incrinare un sistema di regole vessatorie in cui è sopravvissuto per anni. Sull’esito finale della battaglia Scurati non si espone, lasciando aperto il finale ed è proprio dal finale che partiamo per la prima domanda all’autore:
La decisione di lasciare all’immaginazione del lettore la conclusione della storia risponde alla necessità di stimolare, quasi forzare il lettore a porsi delle domande sul suo futuro?
In un certo senso è così. Scrivendo la Seconda Mezzanotte, che è a tutti gli effetti una distopia nel solco della tradizione del romanzo “politico” novecentesco in una linea che va da Orwell a Dick, ero consapevole del fatto che una autentica distopia non potesse avere un finale di redenzione. Anzi, che non potesse avere un finale vero e proprio in assoluto. Il finale, che chiude la narrazione sciogliendo l’intreccio è, tra tutte, la componente più consolatoria del racconto romanzo e io volevo tenermi agli antipodi dell’effetto consolatorio che spesso, troppo spesso, nella narrativa di genere giunge a compiacere il lettore dopo avergli fatto sfilare davanti agli occhi ogni sorta di delitto, crimine o atrocità. In un universo incattivito come quello narrato da La seconda mezzanotte, la conclusione doveva, invece, produrre nel lettore un’esperienza di cattività. La cappa di oppressione e disperazione che grava su quel mondo imbarbarito doveva richiudersi su di esso dopo essersi per un istante sollevata a dischiudere una tenue ma combattiva speranza. Altrimenti avrei barato con il lettore. L’indecidibilità del finale (si sarà trattato di tradimento? La rivolta avverrà? Ecc.) è il necessario corrispettivo narrativo dell’ambiguità del male, della sua pervasività e della nostra complicità morale con esso.
E indica anche la possibilità che la storia prosegua…
La seconda mezzanotte ci ha riportato a un passato fatto di giochi gladiatori e violenza senza colpa (o quasi), dove però manca quella (almeno apparente) certezza del diritto che proprio con i Romani vede il suo albore. Pensa davvero che ci stiamo avviando verso questo tipo di scenario?
Non è necessario attribuire alle intenzioni del romanzo alcun profetismo. Per un verso, l’esperienza cruciale delle arene gladiatorie quale principale sistema mediatico del mondo antico è un’esperienza che, mutatis mutandis, ha fatto storicamente qui in Occidente anche la generazione di uomini e donne alla quale io appartengo. Tutti noi, volenti o nolenti, nei decenni dominati dalla rappresentazione televisiva del mondo, siamo rimasti assisi sugli spalti del nuovo Colosseo che io immagino situato in piazza San Marco. Abbiamo assistito, da posizione protetta e privilegiata, corrotti da un’intensa voluptas spectandi, alla violenza planetaria e alla sofferenza altrui trasformata in intrattenimento visivo. Per altro verso non va dimenticato che un potere di tipo imperiale, come fu quello di Roma antica, fondava sì il diritto europeo dell’Europa moderna ma basandolo su una gerarchizzazione tra gli esseri umani. Contemplava e favoriva, cioè, una strato di sub-umanità confinata nella schiavitù o nel servaggio di massa (i gladiatori erano ammirati per il loro coraggio ma disprezzati in quanto schiavi, a loro non si applicava il diritto riservato ai cittadini romani). Questa condizione del possibile ritorno di un servaggio diffuso è sicuramente uno dei rischi all’orizzonte di un nuovo potere imperiale.
La realtà che ci circonda e, come direbbe Alain Finkielkraut, ci assedia con i suoi mille specchi riflettenti e deformanti, costringendoci a velocità che ci fanno perdere il contatto con la realtà stessa, sembra essere la base solida e costante dei romanzi di Antonio Scurati. Come decide, fra i mille input che giornalmente ci bombardano, quale sia quello su cui costruire una storia? Periodicità, diffusione, impatto, atipicità?
Tendo a scegliere, tra i mille input che “ci bombardano” generando una vasta bolla di irrealtà quotidiana, proprio quelli che generano l’illusione di realtà. Tra questi, la violenza mediata è uno dei principali. Più sprofondiamo in una coltre di irrealtà più coltiviamo il mito di zone di realtà ultimativa ed estrema che ci illudiamo possano riscattarci dal nostro torpore cognitivo e dalla nostra passività. Le situazioni limite della violenza sono al centro di questa mitologia perversa dell’esperienza. Basta guardare a quanto successo hanno tutti i racconti criminali, letterari e televisivi. In seconda istanza, tendo a eleggere a tema della mia narrativa quei frammenti del mediascape contemporaneo in cui riecheggiano forme archetipiche della nostra cultura, attraverso i quali l’antico, l’atavico, il premoderno si rivelano successivi al sogno infranto della modernità.
Quando inizia a scrivere un romanzo ha già chiaro dove la porterà? Ha già scelto protagonisti e ruoli secondari? E soprattutto ha già identificato il lettore ideale per la sua storia?
Di norma, un lungo lavoro di preparazione e studio precede l’inizio della scrittura di un mio romanzo. Ho già centinaia di pagine di appunti quando comincio la prima stesura e conosco l’architettura generale della narrazione. Questo non impedisce che, nel mezzo, situazioni e personaggi si sviluppino in modo imprevedibile vivendo di “vita propria”. Quella che lei chiama “cristallizzazione del flusso narrativo” non è a mio avviso una debolezza nella forma romanzo. Al contrario, questa fin dalle sue origini si nutre di digressioni, dilatazioni, assimilazioni di componenti nominalmente aliene, criptosaggismo, ecc. L’eterogeneità e l’eteroglossia sono la ricchezza del romanzo. Ridurre il romanzesco allo storytelling, cioè alla freccia del racconto che congiunge un punto A a un punto C passando attraverso un termine medio B significa, secondo me, impoverirlo. Al lettore ideale, poi, ho per fortuna smesso di pensare. La tendenza compulsiva ad anticipare i presunti effetti di lettura al momento della scrittura è, a mio modo di vedere, attualmente una delle principali cause del depotenziamento della narrativa letteraria. La sostituzione del marketing alle problematiche di poetica non è stata un buon affare per l’economia dell’arte letteraria. Io la chiamo “precessione della ricezione” e la ritengo una delle principali malattie spirituali del nostro tempo. Mi piacerebbe scrivere dei libri per un pubblico che non esiste. Non ancora.
Leggere il suo romanzo mi ha fatto ripensare al punto di vista di John Barth sui lettori, da lui considerati molto più intelligenti e capaci di quanto l’editoria, i media e la politica ritenessero possibile. L’autore dell’Opera Galleggiante utilizza nelle sue storie, spesso focalizzate su temi controversi, un susseguirsi di zoom sui personaggi, seguiti da campi larghi in cui spetta al lettore collegare gli eventi e scovare l’obiettivo ultimo dell’autore. Qual è il suo punto di vista sui bisogni dei lettori italiani?
In parte credo di aver già risposto nelle righe precedenti. Vorrei qui solo limitarmi a ricordare che, al contrario di quel che implicitamente sostiene la dittatura del marketing, come ha dimostrato Donald Sassoon nel suo monumentale e documentatissimo saggio La cultura degli europei. Dal 1800 a oggi, è sempre l’offerta culturale a creare un proprio pubblico (e quindi anche una propria domanda pagante), non il contrario. Nessuno sa desiderare una determinata esperienza letteraria prima che qualcuno sia in grado di provvedergliela e, soprattutto, di fargliela apprezzare. È questo a rendere in sostanza diverso il commercio dei libri da quello dei prosciutti. Il primo si basa interamente sui desideri, il secondo invece soprattutto sui bisogni. E i desideri sono progressivi, sconfinati e ignoti a se stessi.
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