Dialoghi demistificatori. “A caso” di Tommaso Landolfi
Con scadenza pressoché annuale Adelphi ripropone, da circa un decennio, le opere di Tommaso Landolfi, nome scontroso e appartato nella letteratura del nostro Novecento: nel 2018 – tra l’altro centodecimo anniversario dalla nascita dello scrittore di Pico – è il turno di A caso, già pubblicato nel luglio 1975 da Rizzoli.
Nonostante si sia passati da una copertina in cui le severità formali e le tematiche perturbanti landolfiane si specchiavano rispettivamente nella rigorosa geometria della grafica di John Alcorn e nella cappa d’angoscia spirante dall’illustrazione di Edward Gorey a una più uniforme (nella quale domina comunque il giallo carico presente anche nella precedente edizione) la potenza demistificatrice del libello è rimasta intatta.
Landolfi, questa volta servendosi della forma dialogica, inscena nel suo teatro verbale dell’inaspettato una continua, cinica, notomistica profluvie di orrori, vizi e corruzioni. Personaggi biechi, avviliti e consunti calcano disordinatamente la scena, entrano ed escono, senza regola, a caso: ogni figura intreccia in sé due poli nodali per gli iniziati alle lettere, Amore e Morte.
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Il protagonista del primo racconto viene spinto dal suo creatore, con sagaci astuzie retoriche, all’intenzione di «uccidere impunemente» la prima persona che gli fosse capitata sott’occhio: vittima designata, «il bambino Giambattista». In seguito a diverse esitazioni, appostamenti, digressioni e progetti, il nostro desiste e la causa della capitolazione degli efferati propositi è, come argutamente scopre il demiurgo, un «pericoloso cedimento agli affetti, ai moti dell’animo e simili» originatosi dalla visione (solo con la coda dell’occhio) della sorella maggiore del ragazzino, intenta a mutare «nei diurni i notturni indumenti».
Un simile ribaltamento, ma più vicino ai toni della farsa, caratterizza il secondo racconto, Il riso, nel quale un disperato cerca un killer che possa ucciderlo quando meno se l’aspetta. Il terzo racconto, esemplare nel suo essere dissacrante, cede il passo a un tono oracolare, profetico, biblico: «il Profeta della Nuova Religione» sta costeggiando un fiume, seguito da una piccola folla di «discepoli»; a un certo punto si ferma e li invita ad avanzare per «contemplare il gioco dell’onda, e in quei vivi barbagli riconoscere la maestà e la benignità del Padre» mentre lui rimarrà indietro. I seguaci iniziano ad almanaccare, indiscreti, sulle ragioni imperscrutabili di questa sosta («Egli si ferma per trarre ispirazione dalle cose create e per parlare col Padre Suo»; uno di loro lo vede «a colloquio con un olivo») fino a scoprire che stava semplicemente immollando «di benefica rugiada la terra riarsa», rendendola «in tal modo […] feconda per i secoli». Più il contenuto del racconto si abbassa e diventa quotidiano, più la forma è «alata» e indice di straordinarietà, fino a trasformare l’urina in «Una rugiada d’oro: quale al divino Maestro si conveniva piovere».
Racconti come Osteria del numero venti, Rose e Un petto di donna mostrano come, per Tommaso Landolfi, personaggio appartato e scontroso della letteratura del nostro Novecento, quella femminile sia figura ossessivamente definita «tramite una singola parte» e, ancora, «concupita quanto temuta, profanata senza mai essere conquistata» (riprendo da M. Mari, I demoni e la pasta sfoglia, Il Saggiatore, Milano, 2017, p. 210): sempre in bilico tra riferimento colto – nella «pallida carne bensì rigonfia ma come per morbo» si intravedono gli insani turgori dei disegni e delle perturbanti litografie di Alfred Kubin – e richiamo crasso, anzi pecoreccio – una su tutte l’allusione a stornelli goliardici da taverna – Landolfi mostra tutta la viltà, la bassezza e l’abiezione di una vita che al massimo può concedere «gioie ambigue, torte e per giunta fuggevoli».
Sublimazioni e manierismi toccano anche l’universo maschile: ne Il c.f. l’impotenza, di «ordine fisico», del protagonista maschile diventa sintomo di una più ampia condizione di «tristizia d’animo, ingenerosità, colpevole sfiducia, compiacente autocommiserazione», mentre con Volpi scodate si torna al tono parabolare dell’apologo e si approda al vagheggiamento di un’umanità senza futuro finalmente incapace di riprodursi («Non sei felice di vivere sapendo che non v’è conseguenza, che con te finirà l’intera maledetta schiatta degli uomini?» domanda un padre al figlio; la «adorata» consorte di quest’ultimo preferisce vivere senza avere figli, leopardianamente «Votati all’infelicità» propria e dei genitori).
L’ultimo pezzo è illuminante: sin dal titolo (Allegoria) obbliga all’interpretazione di quanto narrato. Il protagonista viene catapultato in un mondo in cui – per imposizione di una non specificata autorità – le barche viaggiano faticosamente «puntando i remi» e affondando la chiglia nel terreno; mentre le automobili, con le loro ruote, vanno «per mare o in genere per acqua». Insieme a noi lettori la voce narrante coglie il paradosso e, di seguito, non esita a proporre una soluzione più ragionevole. L’interlocutore si inalbera e minaccia di denunciare il protagonista «alle autorità costituite».
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Si comprende qui l’esito della parabola letteraria di un autore appartato, ostico, scontroso, se non addirittura bilioso ma per questo (e non solo!) dannatamente umoristico e sincero che, come pochi altri nel nostro Novecento prevalentemente mondano o engagé, si è sempre fatto guidare la mano dai propri demoni, senza mai scendere a compromessi: se, da un lato, noi lettori ci accontentiamo di sussurrare, a parte «Oh, oh: ma guarda che specie di pazzi s’incontra per le vie del mondo!»; dall’altro Landolfi spinge sulla nuda terra la barca di carta della sua letteratura; la singolare prescrizione è figlia di non precisati «poteri», ossia degli ordini ineludibili dettati dalle sue ossessioni.
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