Di fronte alla violenza sui bambini non restiamo “A bocca chiusa”
Edito per la prima volta nel 2014 per la Newton Compton, A bocca chiusa viene riedito adesso da Fernandel, con cambiamenti sensibili nell’opera, a testimonianza di un percorso di sensibile maturazione dell’autore Stefano Bonazzi. Una biografia, uno struggente romanzo noir o un particolare romanzo di formazione – sarebbe più corretto dire distruzione –, a noi decidere a quale categoria appartiene, apprezzandone le poliedriche sfaccettature inesorabilmente macchiate da una struggente violenza viscerale che incatena fino all’ultima pagina. Risulta sorprendente come un impianto di personaggi molto semplice e ordinario, come è quello del libro, indaghi e faccia esplodere, in un microcosmo che profuma di ordinaria semplicità e povertà, il forte sentore del dramma umano.
«Forse eravamo entrambi dei sognatori. Entrambi aggrappati a un’immagine impalpabile che ci dava sollievo e rendeva le rispettive attese più sopportabili. Forse io e lui eravamo simili. Questo pensiero mi spaventava più di tutti, allora deglutendo lo spingevo in basso, sempre più in basso, fino a quando non finiva sepolto da qualche parte. Perché io vedevo quello che c’era dentro di lui. Un seme nero, marcio, che puzzava di morte. Lui di quel nero era impregnato. Ogni giorno cresceva un po’ di più perché ogni giorno si allontanava dalle cose che lo avevano fatto stare bene. Si allontanava dalla vita.»
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È un bambino a parlare, che porta con sé una valigia riempita con non molta esperienza del mondo ma carica di sogni, speranze e desideri. Sul manico di questo bagaglio sporge un’etichetta sulla quale l’identità ancora non appare stampata, ma certa è la paura che prima o poi possa risultare simile, se non uguale, a quella di una persona marcia e corrotta dal tempo, con la quale trascorreva intere mattinate in attesa del rientro della madre, immerso un silenzio amplificato da un terrore violento. Il racconto fa coincidere questa persona con un nonno incline alla violenza, uomo la cui infanzia è stata a sua volta segnata da eventi catastrofici e che pertanto riversa il veleno trattenuto dentro così a lungo su tutte le persone che gli sono vicine, incapace di vedere l’amore di tutti coloro che lo circondano. Domina in lui un odio bramoso e avaro che tende a isolare gli oggetti su cui si riversa, celandosi talvolta dietro le sembianze di un affetto possessivo che vuole conservare e proteggere, ergendosi a protettore di quella stessa innocenza e fanciullezza che lui stesso sta divorando con appetito. Ed è così che spesso quel bambino si trova da solo, perché quei bambini con cui poteva giocare non sono ritenuti modelli ed esempi positivi per lui, perché gli viene ripetutamente chiesto di crescere prima del tempo, di essere superiore, senza però avere di fronte un modello sano al quale rapportarsi.
«C’erano soprattutto l’urgenza, l’affetto e l’apprensione di dover cogliere ogni singolo particolare, senza trascurare nulla, in ciascuno di quegli scatti. Mia madre se ne andò in silenzio, al mio fianco, prima che arrivassimo all’ultima pagina.»
Il bambino, cresciuto, a seguito di una discussione fatale con il portatore di quel seme marcio a cui aveva paura di somigliare, perde l’uso della parola, cercando di rimanere a galla in un abisso di intenti interiori, con un fondo indigesto di azioni subite e mai denunciate, dove l’unica scialuppa di salvataggio è formata da foto a testimonianza di quella dolcezza sperimentata, ora quasi del tutto persa, e dalla madre. Ma lo sappiamo bene, le foto con il tempo sbiadiscono e a rincarare la dose del dramma umano sopraggiunge anche la morte della figura materna. Adesso è un adulto solo, il padre, uscito dalla sua vita fin da quando era piccolo, non appare più tra le righe del libro. Trova conforto negli psicofarmaci più svariati e in una routine composta di una calma quasi macabra, priva di colori e dalle emozioni appiattite. Irrompe d’un tratto una melodia, una musica proveniente da un locale vicino al suo ufficio grigio. Poi un bambino entra nella scena, riuscirà a richiamare un mondo sopito e sedato nell’animo del protagonista?
«Una creatura del genere non può appartenere alla mia stessa specie, pensa. Sembra così pulito, così sano, così ingenuo. Vorrei dirti di stare attento, di tirar fuori le unghie, di levarti quello sguardo da angioletto o sporcartelo di fango per mimetizzarti, ma probabilmente non mi capiresti. Il mondo non ti ha ancora vomitato addosso la sua pazzia.»
È realtà o solamente una proiezione esterna, dovuta a una pressione che esplode e sente la necessità di riscatto? Di sicuro possiamo dire che l’amor gignit amorem trova qui il suo corrispondente rovesciato, ovvero l’odio che genera ciclicamente l’odio senza possibilità alcuna di fermarsi mai. E ben attenti dobbiamo allora vigilare, specialmente oggi nel non trasformarci in: «[…] una generazione che ha il volto dell’uomo di Munch che urla sul ponte, sopra il quale ha dimenticato da dove viene e dove va e rimane sospeso nell’angoscia della vertigine, non sapendo se andare avanti o tornare indietro.»(Alessandro D’Avenia) e proprio dai bambini possiamo riuscire a riorientare la bussola smagnetizzata dell’umanità.
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A questo punto si potrebbe semplicemente chiudere il libro e rassicurarsi che si tratta di una storia inventata, quanti sono invece i casi ogni anno di violenza sui minori? E pure quanti sono i trattati a favore dei diritti del fanciullo dell’infanzia? Queste sono le domande che rendono il romanzo ancora più inquietante e duro, un monito ad aprire gli occhi su quella pura innocenza precocemente spezzata o imprigionata da un embrione malato che sembra svilupparsi nel tempo e nello spazio senza il minimo freno. Un’esortazione drammatica in un linguaggio semplice e lineare, come quello di un bambino, a salvare il nostro futuro, nella speranza di risvegliare dal torpore un’umanità autentica sopita e distratta da sentimenti corrotti sedimentati nel tempo e la testimonianza di una scrittura nervosa e matura di un adulto-testimone delle scorie radioattive che la società è in grado di produrre: non rimaniamo più a bocca chiusa di fronte a tutto questo.
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