“Der Park”: riscrittura del “Sogno” shakespeariano nella Berlino anni ‘80
Nel 1983, Botho Strauss consegna all’amico Peter Stein Der Park, un copione tentacolare, che sfiora il limite della rappresentabilità e che parte da suggestioni del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, per svolgerle in una riscrittura “da incubo”, enigmatica e stravolta, ambientata nella Berlino degli anni Ottanta. Proprio lì vedrà il debutto nel 1984, alla Schaubühne, cuore teatrale della città ovest negli anni del muro (attualmente diretto da Thomas Ostermeier).
Favola nera, viaggio al termine del mito, specchio deforme di una società disagiata, Der Park, produzione del Teatro di Roma, giunge al Piccolo Teatro di Milano, dove rimarrà in cartellone fino al 6 dicembre.
Nella loro ingegnosa successione, le oltre trenta scene che compongono lo spettacolo ospitano diciassette attori; il palcoscenico si smonta e rimonta grazie a una decina di tecnici che rendono possibile la corposa pianificazione scenografica di Ferdinand Woegerbauer: un progetto poliedrico, con bei volumi scolpiti dal lighting design di Joachim Barth.
Negli ultimi anni il teatro ci ha disabituati a proposte così imponenti, “in maggiore” per dirlo con le parole di Antonio Calbi (direttore del Teatro di Roma). Le oltre quattro ore di spettacolo compongono un mosaico oscuro, per certi versi inafferrabile. La sensazione è che Der Park sia un risultato alchemico, forse favorito dal fatto che gli attori principali siano già stati diretti da Peter Stein e si conoscano fra di loro.
Il confronto col modello elisabettiano si fa subito: via Atene e la foresta, via i comici artigiani, via gli elfi, via la leggerezza. Rimangono i nomi di Oberon (interpretato da un aureo Paolo Graziosi) e Titania (Maddalena Crippa, statuaria), divinità che sbirciano con modi da voyeur un parco di Berlino e i suoi abitanti, quasi tutti dei casi umani. La coppia ha uno scopo: riportare una scintilla di desiderio nell’oscuro giardino berlinese che ha sotto gli occhi. E per farlo si serve dei sortilegi dell’artista Cyprian (Mauro Avogadro), una traduzione grottesca e perversa del Puck del Sogno. Nella sua wunderkammer, lo scultore produce feticci dai magici influssi e dagli appellativi capziosi (uno su tutti, “Ragazza con ginocchia rovinate da inchini”).
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Ne è vittima la stessa Titania insieme ai quattro “amorosi”, anch’essi presi dal testo di Shakespeare, modificati nel nome e incastrati in due matrimoni disfunzionali. Altri gruppi umani attraversano Der Park e il suo insidioso sottobosco: due disoccupati perdigiorno, copia svuotata dei comici shakespeariani, il cui dialogo è declassato a chiacchiericcio senza spina dorsale; e un gruppo di giovani punk che rumoreggia tra una scena e l’altra, come un cupo simulacro del mondo elfico.
La missione non conoscerà trionfo. Se Titania viene soggiogata fino al sangue da un desiderio né umano né divino, diventando una variante di Pasifae, per Oberon il destino è più radicale: la caduta nel mondo degli uomini. Ribattezzato Mittentzwei (spezzato in due), diverrà afasico, fragilmente incompreso.
La parola riscrittura non ha un significato univoco, ed è noto che l’opera del Bardo si presti bene a rivisitazioni di ogni sorta (inclusi gli esempi editoriali di romanzieri che partono dalle sue trame). In questo caso, Botho Strauss sgretola il mito sotto gli occhi dello spettatore e lo fa per due volte. Il canovaccio del Sogno di una notte di mezza estate sparisce a metà, senza ricomporsi in un’invenzione alternativa. E si disfa anche l’idea più classica del mito, portandosi via ogni traccia di facondia: diventa sussurro, prosa sbiadita. In un incalzare di scene giustapposte, trame visive e intuizioni drammaturgiche, lo spettacolo si trasforma a tutti gli effetti in un labirinto. A buon diritto può echeggiare una domanda gravida di rimandi: «Sei sicuro che siamo svegli?».
L’ancoraggio del testo agli anni Ottanta non è privo di effetti stranianti. Probabilmente gli elementi più datati avrebbero potuto essere ripensati con sguardo meno filologico. Del resto, Der Park è intessuto di ironia e paradosso, anche nei momenti più grevi (e non sempre la recitazione intercetta le sue sottili possibilità).
Va menzionato il denso epilogo che si adagia su una scenografia finalmente immobile, con il parco incorniciato sul fondo: una grande sala che attende la festa di Titania, disertata da quasi tutti gli invitati. L’ospite che fa gli onori di casa è il Minotauro (Alessandro Averone), frutto della furia amorosa di Titania, innamorato della madre, bestia ambigua e stretta in un abito ciclamino con due piccole corna in mezzo ai ricci. Qui l’eloquio si rialza, ma ciò che narra è un’allucinazione senza finale. E, anche grazie alle figure di contorno, un pianista a poco a poco esanime, una cameriera lasciva in livrea, le apparizioni spettrali degli altri personaggi, capiamo quale sia il centro del labirinto: la macchina celibe che ci ha messi in trappola.
Der Park
di Botho Strauss dal Sogno di Shakespeare
traduzione Roberto Menin
regia Peter Stein
con Alessandro Averone, Martin Chishimba, Maddalena Crippa, Martino D’Amico, Michele De Paola, Arianna Di Stefano, Gianluigi Fogacci, Paolo Graziosi, Orlando Lancellotti, Pia Lanciotti, Laurence Mazzoni, Andrea Nicolini, Silvia Pernarella, Graziano Piazza, Daniele Santisi, Fabio Sartor, Samuele Valera
scenografo Ferdinand Woegerbauer
costumista Annamaria Heinreich
lighting designer Joachim Barth
musiche originali Massimiliano Gagliardi
assistente alla regia Carlo Bellamio
produzione Teatro di Roma
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