“Demian Sideheart” di Francesco Zingoni, ovvero non si vive di sole intenzioni
Demian Sideheart sembra collocarsi all’interno di una prospettiva di analisi fenomenologica dell’identità, partendo dall’assunto che questa non è una scienza per vivi. Non essendo contestuale all’esperienza, interviene, infatti, per dare conferma alle domande di un medico legale che analizza i referti autoptici, come un tempo si leggevano le viscere degli uccelli per trarne auspici. La morte dell’io è la premessa necessaria al suo racconto. I resoconti biografici sono ricostruzioni ex post in cui la fine della vita è il vero inizio che rende possibile l’odissea; l’autobiografia è la biografia di un io che si fa sé, oggettivandosi per distanziarsi.
«Addio sono una donna morta» (Aldo Busi, Vendita galline km 2, Mondadori, 1997) non è solo un incipit, ma la risposta all’Ulisse di Joyce: lo smarrirsi nel flusso dei propri pensieri nel tentativo di ricostruire un’identità socialmente narrabile è possibile solo dall’aldilà, cioè da un posto che sta proprio sotto i piedi di coloro a cui ci si vorrebbe raccontare.
Zingoni riesce a spingersi fino a capovolgere inizio e fine in un percorso a ritroso, in cui l’amnesia è dimenticanza della propria morte e il recupero della memoria è il racconto di chi ricostruisce la propria vita per celarsi pietosamente di essere già morto: «Capisci perché, mano nella mano, stiamo passeggiando qui, su questo confine? Guarda anche tu dentro l’onda di luce: tutto ti apparirà chiaro. Inevitabile. Per un anno ho camminato qui, senza sosta, il cuore oppresso dalla paura di non poterti più raggiungere. Per scoprire alla fine che sei tu che non puoi raggiungere me. La mia paura era fondata. Ma sono io ad essere dalla parte sbagliata, sono io quello che non puoi seguire.» (Francesco Zingoni, Demian Sideheart, Outsider Edizioni, 2011, pagg. 639-640). Il ricongiungimento finale, con cui il cerchio si sarebbe dovuto chiudere, è negato nello scambio delle parti tra colui che si credeva vivo e colei che, invece, era creduta morta. L’immancabile happy end, però, giunge puntuale e l’amore trionfa; l’agnizione della morte dell’uno si fa desiderio dell’altra. Insieme per sempre e anche oltre.
L’intuizione di Zingoni, comunque, sposta ulteriormente il confine: dall’io lacerato dall’ordigno esploso proprio al centro de Le onde, romanzo post-bellico per eccellenza, dalle scissioni post-proustiane di Seminario sulla gioventù, che distanziano l’io presente dal Barbino che fu, al viaggio-calvario di Demian Sideheart, prima nelle identità in terza persona (Mauke Nuha e Sebastian Heller) di un presente che si fa viatico verso il passato e, poi, nelle molteplicità di “io” disgreganti l’intreccio del romanzo, che, a tratti, raggiunge momenti di bel lirismo.
Ma basta un’intuizione a reggere l’impalcatura di un intero romanzo? Direi di no. Anzi, Demian Sidehart è la zavorra di quell’intuizione, dominato com’è dall’asfissiante ossessione per la trama, fino a seguire direzioni che testimoniano della tendenza di Zingoni all’ammicco, come strategia per attrarre e mantenere viva l’attenzione dei lettori, e al controllo iper-razionalistico, che sfocia nella banalizzazione di quelle coincidenze su cui Krzysztof Kieślowski ha magistralmente costruito la continuità dei suoi Tre colori.
La scrittura di Zingoni, intesa come insieme di forma stilistica ed articolazione del romanzo, è figlia di due genitori la cui prole ha da tempo superato quella priapica: la pubblicità e l’autorato televisivo italiano. In Demian Sideheart, tutto è all’insegna di una categoria estetica molto in voga negli ultimi anni, a cui sembrano attingere con un certo auto-compiacimento molti giovani scrittori italiani: lo stuporioso. Tutto è talmente meraviglioso da risultare stupefacente, incredibile al punto da suscitare stupore e incredulità: una versione contemporanea del sublime, che tutto trasforma in oggetto eccezionale di una rappresentazione divenuta la vendita all’incanto di un imbonitore che deve nascondere a se stesso e agli acquirenti la finzione in saldo.
Fin qui l’eredità materna, ma la struttura del romanzo di Zingoni è anche il lascito in linea diretta di un padre che, in realtà, è una pletora di industriali della pseudo-creatività rinforzata dal format: gli autori televisivi, appunto. Come questi, dominati dalla paura di perdere spettatori ad ogni stacco pubblicitario, scrivono al perfetto conduttore l’allettante elenco delle cose incredibili che accadranno e dei personaggi magnifici che entreranno in scena dopo la pubblicità, che esibirà altre cose preziose ed irrinunciabili, così Zingoni chiosa quasi tutti i capitoli con annotazioni che affossano, con stile televisivo, la tecnica narrativa del romanzo d’appendice: «Trascorsero così altre due settimane. Poi, la notte di novilunio che chiudeva quel mese arrivò, e portò con sé la luminosa rivelazione del primo ricordo» (pag. 27, chiosa del Capitolo I); «E c’era dell’altro: qualcosa di molto importante si sarebbe intrecciato al destino di Mauke Nuha, un drammatico segreto di cui lui ancora non era a conoscenza. Horu custodiva in silenzio questo segreto, attendendo il momento più opportuno per rivelarlo.» (pag. 62, chiosa al Capitolo VI).
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L’intero romanzo è pervaso da questo atteggiamento e ben presto lo stuporioso pubblicitario e l’angoscia dell’autore televisivo si fondono a creare il soggetto di una telenovela sudamericana ricca di coincidenze, colpi di scena, rivelazioni, segreti, morti, rinascite e ri-morti.
Un romanzo televisivo s’intreccia su se stesso, si avviluppa nei tentacoli dello show, ma lascia morire per asfissia la bella intuizione iniziale. Questo, a Zingoni, non può essere perdonato.
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