Deleterio Goethe: i danni irreparabili della Letteratura Romantica
“Ci sono persone che non si sarebbero mai innamorate se non avessero sentito parlare dell’amore”
La Rochefoucauld, Massima 136.
Bisognerebbe bruciare Madame Bovary visto che non si è riusciti a trarne alcun giovamento.
Bisognerebbe anche sbarazzarsi di Abelardo ed Eloisa, di tutte le sorelle Brönte, della Austen e di quei pericolosissimi tedeschi, incominciando da Goethe!
In un’epoca in cui gli abiti erano tutti di sartoria e non avevano percentuali di acrilico denunciate sull’etichetta, in cui si scarrozzava – a volte un po’ scomodamente – da una parte all’altra del continente in omnibus, un’epoca che andava dalla seconda metà del ‘700 e la prima parte dell’800, era usanza per le madri accompagnare le figlie femmine per le vie della conoscenza facendo loro dono di manuali sul corretto stile di vita e sulle maniere più appropriate e sagge di sottrarsi ai tranelli che non avrebbero mancato di insidiare il loro cammino.
Uno degli avvertimenti che quasi tutta la manualistica del genere ripeteva con veemenza e perseveranza riguardava il pericolo – oscuro e subdolo – insito nella lettura di romanzi a contenuto amoroso i cui danni non avrebbero certo tardato a manifestarsi tarlando la struttura morale della fanciulla che imprudentemente si fosse prestata a cotali letture (impedibile in tal senso “Anatomy of melancholy” di Robert Berton).
Le tracce di queste avvedute tendenze si leggono, seppure in tono tra il sarcastico e il superstizioso, in romanzi celebrati quali ad esempio – per l’appunto – Madame Bovary e L’abbazia di Northanger; alcuni romanzieri hanno aggirato l’ostacolo costruendo romanzi amorosi proprio al fine di esplicitarne la pericolosità del contenuto: uno su tutti – capolavoro oltre che vademecum imprescindibile di sopravvivenza – Le relazioni pericolose di Pierre Choderlos de Laclos.
Al giorno d’oggi, malgrado le centinaia di decine d’anni trascorsi, possiamo, anzi dobbiamo, considerare in tutta la sua pericolosità la letteratura cosiddetta Romantica.
La lettura di certi romanzi tramanda in noi e nei nostri costumi l’idea e la convinzione che esista una sfera della vita e delle relazioni subordinata al capriccio delle passioni e dei sentimenti, al loro arbitrio, al loro metro irrazionale di giudizio: fa di noi tanti Werther sull’orlo del precipizio emotivo, sempre pronti ad analizzare i frammenti, dai più insignificanti ai più complessi e complessanti, di quello che si pensa e si vive come il discorso metafisico dell’amore (cfr. Barthes) e che invece altro non è che un granello della fatica quotidiana della ricerca di senso.
Oggi, grazie al progresso scientifico, possiamo avere sulle relazioni umane una serie di informazioni che ce ne rendono un quadro meno incerto e più ricco di dettagli da un punto di vista meccanico e motivazionale.
Da una prospettiva biologica l’accoppiamento tra gli individui viene suddiviso in tre fasi. La prima è quella in cui l’aumentata produzione di testosterone fa scattare l’attrazione sessuale: ci si accoppia, si copula e tutto finisce, magari, se si è provvisti di sufficiente eleganza, con una colazione preparata con accortezza e stile che oltre al caffè e alla frutta fresca include un paio di toast spalmati di burro dolce e confettura di fragole, una spremuta d’arance e dei cereali con yogurt dentro ad una ciotola di ceramica bianca. Ci sono casi, però, in cui l’elevato tasso di testosterone induce un’alta produzione di dopamina e norepinefrina, e se si è fortunati anche un abbassamento dell’attività della serotonina: questa è la seconda fase, nella quale verso il partner viene indirizzata una enorme quantità di energia, che detto in altri termini, a noi più consueti, vuol dire che è scoccata la brutale scintilla dell’amore romantico. Nella fase successiva, la terza, a farla da padroni sono l’ossitocina per le donne e la vasopressina per gli uomini, le quali, se prodotte in abbondanza nella giusta area del cervello, sono in grado di conservare l’attaccamento tra i partner nel tempo.
Oggi, insomma, non è lecito accettare uno struggimento alla maniera di Lancillotto, Isotta, Werther, Edoardo, Julien, Heathcliff, Adolphe e compagnia bella. Oggi possiamo considerare l’impedimento come la sbagliata mescolanza di chimica nel cervello, come l’insufficiente produzione di molecole necessarie e indispensabili per vedersi ancora, come la sintesi organica di un processo neuronale che vuole nella equità la sua raison d’être e che se viene meno a questo presupposto cessa di avere significanza obiettiva. Ma se non c’è ostacolo, se non c’è impedimento, se non c’è tensione, se non c’è distanza ma soltanto carenza di dopamina non c’è delirio, non ci sono figure archetipiche perché sono state annientate dal determinismo biologico, non ci sono notti insonni e bagnate e albe attese cogli occhi pesanti e cieli troppo azzurri perché la chimica molecolare riesce a intervenire anche sui cicli del riposo, non ci sono bigliettini vergati con inchiostro nero sul retro di uno scontrino o languidi sms affidati alle compagnie telefoniche perché è soltanto una conta numerica che lascia insoddisfatti come l’esito di una qualsiasi consultazione elettorale che con un paio di giri di vodka viene smaltita.
Non c’è romanzo insomma.
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