Da cittadini a consumatori, cosa resta del Novecento?
Il tempo del disincanto di Massimo Ilardi, edito ManifestoLibri, è un viaggio per riflessioni sulla contemporaneità. Non un saggio filosofico, ma un’analisi puntuale e disincantata sul tempo che viviamo, sulle contraddizioni esplodenti e su quelle sepolte. La voce del sociologo si mescola a quella del pensatore che guarda alla Storia mentre si fa, si costruisce socialmente dentro una congiuntura inedita e, se vogliamo, impensabile fino a una manciata di anni fa.
Abbiamo posto alcune domande all’autore affinché ci spieghi dei passaggi chiave del suo libro.
Dal suo lavoro emerge che il Novecento è il secolo della finta lunghezza, dell’affermazione del consumismo come patente di cittadinanza, della disumanizzazione dentro una cornice statale che ostinatamente non vuol mollare. Questo mentre siamo di fronte a un’era in apertura che pare smentire il recente passato. È così?
Non sono contro il Novecento e le sue categorie. Come scrivo nel libro, sono contro chi usa in maniera esclusiva le sue categorie per leggere il presente con il risultato di condannarlo indiscriminatamente. Ma la sorte, ci piaccia o no, ci ha scaraventati in questo mondo, ci fa vivere qui e ora. È da questo dato immodificabile che un pensiero critico deve partire. Se il presente ce lo chiede, possiamo rivolgere lo sguardo al passato senza rimpianti o nostalgie, ma solo per capire e con la consapevolezza che quelle categorie novecentesche – la politica, la rivoluzione, lo Stato, il partito, le classi, il popolo, la produzione – non hanno nulla di assoluto ma sorgono e decadono con il tempo.
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Quali sono le nuove implicazioni del conflitto tra Stato e Mercato e Stato e Società? Possiamo leggere questo conflitto, per esempio, in casi come quello dell’Ilva a Taranto o del Tempa Rossa?
Non credo che il conflitto rilevante sia oggi tra Stato e Mercato, tra Stato e Società. Lo Stato è scomparso, serve solo a organizzare il controllo e a far pagare le tasse. Caduto lo Stato, a fronteggiarsi rimangano Mercato e Società. Il conflitto è qui: tra regole del mercato e società del consumo che non vuole regole.
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Lei parla di periferie più che come luoghi dello spazio, come “spazio incontrastato del mercato”. Questo la porta a ridefinire il rapporto con i centri urbani contemporanei, dove tutto pare essere periferie e niente è centro?
Credo che dal punto di vista delle culture, delle mentalità, degli stili di vita la differenza tra centro e periferia sia saltata. Tutto si è omologato, le diversità sono altrove. Sul territorio, ad esempio. In periferia, il territorio è desolato, duro, disordinato, minaccioso. Non è stato disegnato, come nel centro storico, dalla storia e dalla politica. Non conosce queste mediazioni. In periferia è solo il presente a costruirlo. E che cos’è il presente se non i megacentri commerciali intorno ai quali crescono e si espandono i quartieri periferici? Ma di più. In una società del consumo come la nostra, priva di valori che rimandano al futuro il compimento dei nostri desideri, che cosa rappresenta il presente se non appunto i nostri desideri che si proiettano immediatamente sul territorio per essere immediatamente soddisfatti? Il territorio diventa allora una vera e propria zona di frontiera dove si fronteggiano legalità e illegalità, integrazione e emarginazione, ordine del progetto urbano e disordine dell’autocostruzione spontanea. Conflitti e tensioni che si riproducono contro ogni regola e norma in un vuoto politico e istituzionale.
Lei fa un cenno al calcio come “bene comune”, quasi una forma tribale, ma non per questo rozza di comunitarismo postmoderno. Quanto assomigliano queste comunità sportive, queste tifoserie, ai militanti politici italiani?
Non c’è dubbio che l’organizzazione ultras assomiglia a una forma di militanza politica. In un mondo dove l’interesse economico ha preso il posto di comando nella vita di uomini e donne, gli ultras rivendicano invece una comproprietà morale della loro squadra intesa non come show business ma come res pubblica. La bandiera, l’inno, la tradizione sono i simboli di questa appartenenza. La squadra, come un partito, diventa insieme realtà storica e identità metafisica. Un “bene comune” però che non nasce solo da un’istanza etica o da una strategia ideologica ma come conseguenza del riconoscimento del nemico e del conflitto che ne consegue. Senza questo riconoscimento e senza conflitto non c’è “bene comune” che tenga.
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In definitiva il suo lavoro sembra tracciare una nuova linea di demarcazione tra la contemporaneità e il passato, tra il secolo trascorso e quello appena aperto e già così prepotentemente vigoroso. Possiamo provare a definire i contorni di questa linea?
La linea non può che essere disegnata dall’affermarsi del primato del consumo nella società contemporanea. Mercato c’era prima e c’è adesso, come la politica e le sue organizzazioni, come il lavoro e lo Stato. Certo tutto si è modificato nel corso del tempo ma i fondamenti sono rimasti immutati. È l’emergere del primato del consumo che innesca la discontinuità e rompe le regole. Al cittadino che produce e rispetta le leggi della città subentra l’individuo metropolitano che distrugge continuamente non solo merci, ma relazioni sociali, affettività, emozioni, interessi generali senza i quali il mercato entra in crisi. E soprattutto regole. Regole economiche dettate appunto dal mercato. Il consumo, fondato sui desideri, tende a eluderle. Diventa fenomeno extraeconomico. Non a caso la contraddizione forte è oggi tra il sistema di mercato e la forma sociale che questo ha assunto negli ultimi anni. Tra mercato e sua società. È una contraddizione che andrebbe rilevata non solo dalla ricerca sociale ma teorizzata dall’analisi politica.
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