Così ho reso preziose le mie cicatrici. Intervista a Gioia Di Biagio
La Sindrome di Ehlers Danlos è una malattia rara. Anzi, a essere più precisi è un insieme di malattie ereditarie che colpiscono il tessuto connettivo rendendo particolarmente fragile la persona che ne è affetta. La diagnosi a Gioia Di Biagio è arrivata presto, quando aveva sette anni, e ha influenzato tutta la sua vita. Si può dire che la malattia ha condizionato a lungo la sua vita, almeno fino a quando Gioia non ha cambiato prospettiva, grazie anche alla scoperta del kintsugi, l’arte giapponese del riparare le cose versando dell’oro nelle crepe, così da renderle ancora più preziose.
E con Gioia Di Biagio, da poco in libreria con Come oro nelle crepe. Così ho imparato a rendere preziose le mie cicatrici (Mondadori), abbiamo parlato proprio di questo, del reagire alla malattia, del convivere con questa senza lasciarsene sopraffare.
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Vorrei cominciare da due domande dirette, che spero mi perdonerà. Cos’è per lei la malattia? E che differenza c’è tra l’essere malati e il sentirsi in questa condizione?
La malattia per me è una serie di definizioni, caratteristiche e sintomi, una sindrome con un nome difficile da ricordare, che da quando sono bambina mi ha insegnato di non poter far alcune cose, di avere paure, di convivere col dolore, di dover accettare diverse difficoltà. La differenza, crescendo, è stata nello scelta tra “esser malati” o “sentirsi malati”. Ho deciso di ridere, di essere Gioia, di abbracciare le mie paure e cercare ogni giorno di superare il limite delle mie difficoltà. Questa è la differenza fondamentale per me, tra essere malati e sentirsi malati.
Aveva sette anni quando le fu diagnosticata la Sindrome di Ehlers Danlos. Che ricordi ha di quel periodo della sua vita?
Ricordo la preoccupazione dei miei genitori, l’ incomprensione del perché la loro bimba si rompesse in continuazione per un nonnulla. La pelle e le articolazioni delicate. Ricordo che mia madre per proteggermi mi vestiva come un omino Michelin sperando di evitami così qualche ematoma. Ricordo che non potevo correre con gli altri bambini. Ricordo che non potevo andare in bicicletta. Ricordo allora meravigliosi giochi di fantasia, le polverine magiche, le coreografie che mi inventavo con mia sorella e mi divertivo tanto, comunque. Come un bambino sa fare. Ricordo che per ogni cosa che mi veniva vietata io me ne inventavo altre mille, adattandomi sempre a certi limiti da non poter superare. Ricordo che ben presto imparai a dire “ attenti che sono fragile”.
Il libro è diviso in cinque sezioni. Le prime quattro rappresentano i momenti della relazione con la malattia: nascondere, mostrare, comprendere e accettare. Cosa significa attraversare la malattia e farlo in un’epoca come la nostra?
Sicuaramente dipende molto di quale tipologia di malattia si parla. Un raffreddore, un cancro una malattia rara. Le malattie rare spesso non hanno una cura e in un’epoca come la nostra mi auguro che la ricerca scientifica, che ha già fatto passi da gigante, faccia sempre più il possibile per sostenere, aiutare e trovare delle cure per molte malattie tra le quali l’EDS.
Parallelamente penso che ognuno deve fare il possibile per stare, vivere nella salute. Nella nostra epoca ci affidiamo troppo alla medicina takeaway per eliminare qualsiasi forma di dolore senza ascoltare cosa in realtà il corpo vuole dirci. Il corpo, se ascoltato, insegna a rallentare e a volersi più bene, ad amarsi.
La malattia ai tempi nostri è spesso dovuta a stati di depressione, nevrosi, ansia. In un’epoca come la nostra bisogna tornare ad ascoltare di più il corpo, pensare con il cuore piuttosto che farci divorare dalla nostra stessa mente.
La quinta sezione è Impreziosire. Com’è avvenuto il suo incontro con l'arte giapponese del kintsugi? E quando ha capito che poteva essere una sua alleata?
Stavo sistemando casa con mia sorella. Improvvisamente il suo gomito ha urtato una preziosa statuetta di porcellana che mi rappresentava. Nel dispiacere e nel tentativo di recuperarla mia sorella mi ha mostrato un articolo che aveva appena letto: parlava dell’antica tecnica giapponese del riparare le porcellane rotte con l’oro. Abbiamo deciso allora di rincollare i pezzi con l’oro. In quel momento ho capito che quella statuetta rotta e rincollata era ora ancora più simile a me. Le sue crepe dorate sono subito divenute metafora delle mie cicatrici da ripercorrere con l’oro. Quelle cicatrici che mi rendono ancora più unica.
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Com’è cambiato il rapporto con il suo corpo e con se stessa grazie al kintsugi?
Ho deciso di creare una performance, Io mi Oro, in cui come in un rituale antico ripercorro le mie cicatrici con l’oro. Senza le mie esperienze passate e i miei dolori da affrontare, non sarei quella che sono oggi. Ho imparato a rialzarmi perché sono caduta centinaia di volte. Ho imparato a godere appieno la vita perché ho conosciuto il vero dolore. Scelgo di mostrare le mie cicatrici, raccontare la mia vita e metterci l’oro come mi ha insegnato la delicata arte di accettare il danno.
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