Cosa succede quando i genitori invecchiano? Intervista a Cathleen Schine
Cathleen Schine ci presenta i Bergson, protagonisti del suo ultimo romanzo Le cose cambiano, appena pubblicato in Italia da Mondadori nella traduzione di Stefano Bortolussi: una grande famiglia moderna, un vero e proprio clan, e come tale dotato di regole e canoni non sempre riconducibili alla comune comprensione, una specie di statuto autonomo e molto speciale.
Eppure, come tutte le famiglie, anche i Bergson nel tempo devono fare i conti con modifiche fisiologiche e strutturali: per esempio l’ingresso di nuovi membri non sempre affini e non sempre “previsti”. Soprattutto sono invecchiati, e i figli sono cresciuti, le strade si sono talvolta separate (anche se ogni occasione è buona per tornare a incrociarsi) ed è arrivato il momento di affrontare le piccole e grandi questioni della vita: Joy, formidabile matriarca, donna attiva e ancora gelosamente attaccata al suo lavoro di curatrice di un piccolo museo a New York, sta cominciando a mostrare le avvisaglie tipiche dell'età; Aaron, il marito, è sempre più svagato; i loro due figli, Molly e Daniel, oscillano tra la volontà di vivere le loro esistenze nel modo in cui hanno scelto di viverle e il senso del dovere e della responsabilità nei confronti di chi li ha sostenuti in qualunque momento e senza riserve.
E così, quando Aaron muore, non sanno più come gestire l’amarezza, la solitudine, la malinconia di Joy. Senza contare la rentrée, improvvisa ma non troppo, nella vita della madre di un ex-corteggiatore, e l’inaspettata reazione della donna di fronte all’ultima, forse, occasione della vita, la sua incredibile determinazione a non lasciarsi sopraffare dagli eventi e non perdere la propria indipendenza. Mentre le distanze tra genitori e figli si accorciano sempre più…
Come descriverebbe la famiglia Bergson?
I Bergson, protagonisti del mio libro, sono una sorta di clan, affettuoso, buffo e ogni tanto soffocante.
Le cose cambiano rivela ai lettori una verità universalmente riconosciuta a proposito delle famiglie. Ovvero…?
…Che i membri di una famiglia si amano ma che qualche volta, soprattutto quando cercano di aiutarsi a ogni costo, finiscono invece per danneggiarsi. Le relazioni famigliari, beninteso, sono sempre molto belle, ma spesso si pensa di sapere ciò che è giusto, riuscendo, invece, a fare esattamente quello che è sbagliato.
Come mai, secondo la sua opinione, è tanto difficile accettare, sia per i genitori che per i figli, che al di là del ruolo occupato all’interno della famiglia, gli uni e gli altri sono individui, dotati di una propria personalità, di sentimenti ed esigenze proprie?
Il punto è che una famiglia inizia con una distinzione di ruoli ben precisa: i genitori proteggono i bambini e cercano di forgiarli e formarli. Perciò credo sia inevitabilmente difficile riconoscere che i figli sono degli individui, delle persone. E viceversa. Nel momento in cui tutti sono cresciuti o invecchiati, moltissime abitudini si sono ormai consolidate. Pensiamo di conoscere i nostri genitori, i nostri fratelli, le nostre sorelle, ma spesso li consideriamo in un contesto superato negli anni. Le cose cambiano, le persone cambiano, i membri della famiglia cambiano, le relazioni cambiano, e qualche volta è semplicemente difficile per le persone tenere emotivamente il passo con tutto questo.
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Tutte le donne del romanzo, ognuna a modo suo, ci appaiono come realizzate, determinate, molto auto-consapevoli. Si tratta di un ritratto veritiero delle donne moderne?
Beh, penso di aver raffigurato donne indipendenti e che tuttavia sono anche imperfette, che non sempre vedono il mondo per quel che è davvero e sbagliano a giudicarlo. In realtà, non volevo presentare delle donne idealizzate, ma delle donne moderne che si trovano a fronteggiare delle sfide moderne oltre a quelle che le donne hanno sempre dovuto affrontare, tra cui quella di essere parte di una famiglia.
E per quanto riguarda Daniel, “l’uomo di casa Bergson”?
Penso che anche Daniel debba affrontare un’importante sfida emotiva, ma come quasi tutti gli uomini ha un senso più superficiale delle responsabilità. Questo non vuol dire che ami di meno la sua famiglia. Ma sembra non provare sul piano emotivo la responsabilità che comporta, forse perché, per tradizione, l’unica responsabilità dell’uomo all’interno di una famiglia era quella di provvedere alle sue necessità economico-finanziarie. Ma è pur sempre una generalizzazione, e come tale potrebbe anche non essere vera.
La vecchiaia, in tutte le sue sfumature, è uno dei temi di questo romanzo. È stato difficile trattarlo?
Dal punto di vista dello scrittore sì: c’è voluto molto tempo prima che riuscissi a sviluppare abbastanza senso critico per comprendere appieno che cosa Joy, la protagonista del libro, stesse passando, perché tendiamo a vedere le persone da un’altra prospettiva. Ma uno dei grandi piaceri e allo stesso tempo delle sfide della scrittura consiste nel riuscire a vedere il mondo dal punto di vista del tuo personaggio e non solo dal tuo. E questo è difficile ma al tempo stesso molto entusiasmante. Per quanto riguarda la difficoltà di essere vecchi, penso che sia il lavoro più difficile che si possa immaginare, e non è nemmeno particolarmente gratificante. Ma non è un lavoro che scegliamo, non è un lavoro che possiamo lasciare per trovarne uno migliore. È come nel secolo scorso per i bambini che avevano i genitori che lavoravano in miniera, e si dava per scontato che anche loro avrebbero lavorato nella miniera di carbone. Ecco, la vecchiaia è la nostra miniera, non possiamo andarcene in città a trovare un lavoro migliore.
C’è un altro protagonista in questo romanzo: New York City. Qual è la sua relazione con questa città?
Prima di tutto, ho appena letto che è scoppiata una bomba a Chelsea e sono preoccupata [nella notte tra il 17 e il 18 settembre una bomba nascosta in un cassonetto ha provocato 29 feriti nel quartiere di Chelsea, n.d.r]. Ma New York è un personaggio a tutti gli effetti, in parte perché quando sono andata via da lì e mi sono trasferita a Los Angeles, New York non ha mai lasciato né i miei pensieri né il mio cuore. Ci penso sempre, e lasciatemi dire che è un personaggio non solo nel romanzo ma nel mondo, un personaggio con la sua personalità. È un posto meraviglioso, eccentrico, folle, qualche volta insopportabile. Un po’ come un parente a cui vuoi bene ma che qualche volta parla troppo. Ma non me la posso togliere dalla testa e spero di non farlo mai.
E, infine, è più difficile essere genitori o figli?
Credo figli. Se si ripensa alla propria infanzia, la si rivede come un periodo di gioia e calore ma pure di confusione e paura. Io ho avuto quella che considero un’infanzia felice, eppure, in termini esistenziali, la mia vita interiore era più piena di domande drammatiche rispetto a quando sono diventata genitore. Come genitore ci sono sempre molte preoccupazioni, ma sono per qualcun altro, e non ci si fa tante domande su noi stessi come quando si è bambini. Ma, in definitiva, credo che la cosa più difficile sia diventare vecchi, che si sia genitori o no.
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