Cosa accade quando a una bambina viene impedito di vivere la sua infanzia?
Eva ha dieci anni, ma di diverte ancora con giochi infantili, complice anche il fatto che le sia stato negato di vivere l’infanzia che invece avrebbe meritato. È questo uno dei punti centrali di La casa capovolta, romanzo d’esordio di Elisabetta Pierini, pubblicato da Hacca Edzioni e vincitore del Premio Calvino nel 2016.
Ed è proprio uno dei punti che abbiamo voluto mettere in evidenza nella nostra intervista a Elisabetta Pierini.
Con La casa capovolta lei ha vinto nel 2016 il Premio Calvino. Dopo cinque anni, com’è cambiato il suo atteggiamento, anche il suo stato d’animo, verso questo romanzo?
Dopo il premio Calvino per un lungo periodo non ho più riletto nemmeno mezza pagina di quel romanzo. Mi capita sempre dopo aver lavorato molto a qualcosa di dovermene distaccare per un lungo periodo. Poi quando la mia agente Benedetta Centovalli mi ha detto che c’era un editore interessato all’Interruttore dei sogni (ora il titolo è La casa capovolta) ho sentito l’esigenza di rileggerlo per vedere se mi piaceva ancora e se aveva bisogno di un’aggiustata. Ho modificato le parti che non scorrevano come avrei voluto e ho chiesto ad Hacca di proseguire la lettura da quell’ultima versione. Loro comunque erano già molto convinti di volerlo pubblicare.
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Eva, la giovanissima protagonista del libro, ha una passione per le bambole, oserei dire che quasi vive insieme a loro. Cosa rappresentano per lei?
Le bambole e gli amici immaginari sostituiscono quell’universo di affetti che ogni bambino dovrebbe avere. La Signora è una figura genitoriale, dà le regole, la tratta come una bambina disubbidiente. Invece il padre di Eva è convinto che lei sia matura e responsabile, rafforza quel capovolgimento di rapporti madre-figlia che a volte si verifica in famiglie disfunzionali. Le bambole tengono Eva legata al mondo dell’infanzia che lei sente più sicuro, più vicino alla fantasia che alla realtà, e da cui non vorrebbe allontanarsi.
Nella prima pagina del romanzo, lei scrive: «Eva aveva quasi dieci anni, e ancora faceva giochi infantili.» Fino a che punto si può parlare di un ancoraggio di Eva all’infanzia? E a cosa è dovuto?
Anche se viene giudicata dal padre matura e responsabile, Eva è più infantile dell’amica e coetanea Laura. A Eva è negato in casa il diritto di essere una bambina e lei lo rivendica nel suo modo indiretto: non vuole staccarsi dalle sue bambole e dal mondo dell’infanzia. Ognuno di noi quando salta una tappa importante della sua crescita prima o poi torna indietro per tentare di recuperarla. Meglio prima che poi.
Un padre assente e una madre problematica, una famiglia dunque non proprio serena. Da dove nasce la decisione di porre al centro della narrazione una tale dimensione famigliare?
È la dimensione problematica che fa mettere in atto le energie mentali e creative per fronteggiare l’ostacolo. È la dimensione anomala che mette in campo tutte le risorse mentali di Eva. Me la sono immaginata subito così, è nata nella mia testa in quella famiglia. Però nei miei romanzi non si può parlare di decisione, perché non faccio una scaletta decidendo prima cosa raccontare, si scrivono da soli come vogliono. Nella mia testa il personaggio Augusto Perez avrebbe sempre la meglio sull’autore.
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E per il futuro? Sta già pensando/lavorando a un nuovo romanzo?
Ho dei romanzi nel cassetto e il primo che vorrei tirare fuori è Notte, finalista alla ventisettesima edizione del Premio Calvino. In questo momento Hacca lo sta valutando. Ho un abbozzo di qualcosa a cui per il momento non lavoro, mi sto prendendo una pausa. Le mie cose nuove non so mai cosa mi racconteranno finché non sono arrivata in fondo, potrebbero finire nel cassetto o nella pattumiera.
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