“Correva l’anno del nostro amore” di Caterina Bonvicini
Correva l’anno del nostro amore, ultimo romanzo di Caterina Bonvicini (Garzanti), si può paragonare a un asse cartesiano: sulla retta delle ordinate la progressione del tempo e della Storia, su quella delle ascisse l’incalzare della vita e delle storie di Olivia e di Valerio. Oppure a un fatale cortocircuito tra la macrostoria dell’Italia degli ultimi quarant’anni (gli anni di piombo, la strage di Bologna, quella di Ustica, l’omicidio Calvi, la decadenza della Prima Repubblica e Mani Pulite, per culminare nell’ascesa e nel consolidamento del berlusconismo) e le microstorie dei protagonisti.
Olivia e Valerio sono due bambini di cinque anni.Vivono a Bologna, in una grande casa patrizia. Ma Olivia è l’erede di una potente famiglia d’industriali e Valerio il figlio del giardiniere e della cuoca, piani bassi e piani alti – come il recente lessico televisivo ci insegna – che s’intercettano, s’incontrano, si scontrano, si attraggono, si respingono, allontanandosi, anno dopo anno, dal punto d’origine e, nonostante questo, restando avvolti e avvinti da un inestricabile destino.
Olivia e Valerio crescono e si separano, ma mai per sempre. Lui segue la madre a Roma dopo il divorzio dei genitori,costretto a reinventarsi per tenere il passo delle borgate capitoline, col loro gergo e la prammatica del quartiere. Lei va in vacanza a Cortina, in Costa Azzurra, ma quando torna a casa è la smaliziata spettatrice del disfacimento morale (e non solo) della sua famiglia. Lui torna a Bologna per lei. Lei lascia gli studi e lui per «perdersi in una vita che non è la sua». Lui si laurea in giurisprudenza, torna a Roma, e di nuovo si reinventa, scartando i propri ideali e buttandosi a occhi chiusi in una carriera da imprenditore rampante. Lei smonta una relazione dopo l’altra, un matrimonio dopo l’altro. Lui sposa una donna che non ama ma che gli garantisce quella posizione sociale tanto agognata dalla madre. E intanto si ritrovano, si amano, si fuggono. E tornano a rincontrarsi, ad amarsi e a sfuggirsi di mano, come i due bambini ritratti in copertina.
Microstorie, quelle di Olivia e Valerio. Ma sono davvero microstorie quelle vicende che ci vedono interpreti della nostra vita, recitando talvolta ruoli che non ci aderiscono per nulla, che ci fanno vivere sulla pelle vicende e sentimenti più grandi di noi?
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Questa domanda continua a orbitare intorno alla lettura di Correva l’anno del nostro amore, ogni qualvolta si riprende in mano il libro e se ne sfogliano le pagine. Prendiamo, ad esempio, quelle in cui, nella classe di Valerio, si scatena un dibattito intorno alla Morte di Marat di Jaques-Louis David: una studentessa afferma che il quadro le ricorda «Bettino Craxi mentre esce dall’hotel Raphael e la gente gli lancia le monetine» e la professoressa, «in qualche modo d’accordo», ribadisce che «certe rovine sono troppo sporche e troppo polverose e troppo vaste per stare dentro una composizione perfetta».
Perché, talvolta, la Storia, è una materia putredinosa che nemmeno l’Arte è capace di riscattare. E così Valerio chiosa «Noi ancora non lo sapevamo, ma aveva ragione.[…] Ma io ero troppo preso dalle mie faccende private per prestare una qualche attenzione al discorso». Troppo preso dalle sue vicende private anche per prestare attenzione all’allocuzione con la quale l’ex presidente del consiglio annunciava la propria discesa in campo il 26 gennaio del 1994, grottesca interpolazione nella lite che determina la rottura dell’anno d’amore con Olivia.
È, dunque, questa dimensione trasversale, narrativa e contemporaneamente documentaria, a svelare l’anima di questo romanzo, la sua vibrante autenticità, la sua schietta intelligenza, perfettamente integrata da personaggi, anche minori, raffigurati con profondità emotiva (nonna Manon, soprattutto, e la sua sregolata raffinatezza). Il tutto scolpito con una scrittura penetrante e delicata al tempo stesso, sensibile e viscerale, capace di restituire il ritratto, senza sbavature, di una generazione accesa da nevrosi e ansie, giocosità e artificiosità, ma soprattutto dalla rassegnata contemplazione della caducità della fanciullezza e delle utopie degli amori senza tempo. Anche quando il tempo smette di correre.
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