Contro i “pacchi” del marketing. “La solitudine del critico” di Giulio Ferroni
Giulio Ferroni, professore emerito di Letteratura Italiana alla Sapienza di Roma, è uno dei critici letterari più importanti e curiosi, che nel corso della sua carriera ha sempre tentato di fare un bilancio, un’analisi dello stato di salute della critica. Ferroni ha appena pubblicato per Salerno editore un piccolo saggio dal titolo La solitudine del critico: leggere, riflettere, resistere. Oggi, con un po’ di mestizia ma anche con una testarda volontà di non arretrare, non può che prendere atto di una sempre maggiore marginalità del suo mestiere.
Fare una passeggiata sui social media è molto corroborante: tutti si credono in grado di esprimere giudizi su tutto. Sembra di assistere a quella famosa scena del film Sogni d’oro di Nanni Moretti, dove il regista-attore in una delle sue frequenti sfuriate gridava che tutti si sentivano in grado di parlare di cinema, mentre lui non parlava delle cose che non conosceva («Parlo mai di epigrafia greca?», sbottava il nostro durante lo sfogo davanti ai suoi attoniti spettatori). Sui social incontriamo molto spesso opinioni saccenti che, magari in base a sentimenti emozionali, sparano giudizi su libri e film, mostre e spettacoli. Senza una vera e propria motivazione. Se parli invece male di un autore amatissimo e che vende molto vieni visto come uno spocchioso, uno che vuole “spezzare l’emozione”. Insomma, un senza cuore. Molto di frequente puoi perfino essere bannato (un’esperienza che accade anche ai critici che si avventurano nel mondo social, visto che “i giudici emozionali” non riescono a sopportare l’oltraggio di veder coinvolte le loro opinioni in una discussione “estetica”). Ci sono poi gli influencer dei libri, figure abbastanza inspiegabili che non si sa bene in base a quale autorità discettino di libri, facendo a volte anche delle magre figure (ad esempio, scambiare su Instagram una Pléiade per un Meridiano). E poi ci sono le classifiche, di qualsiasi tipo e genere, che dominano incontrastate (con qualche breve apparizione di quelle legate alla qualità, anche se in questo caso il termine è abbastanza equivoco, se non viene declinato in modo più preciso e rigoroso). Insomma, grande è la confusione sotto il cielo ma non come l’intendeva Mao Tse Tung.
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Ferroni scrive così all’inizio del suo saggio:
«Siamo nel tempo della moltiplicazione, della pluralità, dell’eccesso: costipazione degli oggetti, delle informazioni, dell’esperienza; delle possibilità, delle lacerazioni, della comunicazione. Tempo degli obiettivi sempre raggiunti e sempre scalzati, dell’oltre, dell’ultra e del post, in cui tutto può apparire a disposizione per consumarsi e per perdersi, lasciando comunque sempre nuovi resti, residui, rifiuti… Un eccesso dell’economia, della produzione e dello scarto, che coinvolge anche l’intero orizzonte della cultura, nel suo sostitutivo intreccio con la comunicazione: e tocca naturalmente tutto il territorio di ciò che chiamiamo letteratura.»
Quando Ferroni cominciò la sua carriera di critico, il panorama era naturalmente diverso. C’era attenzione alla critica, si andavano a leggere attentamente e con preoccupazione (da parte di editori e scrittori) le recensioni, gli articoli degli intellettuali che venivano ospitati sui giornali o sulle riviste specializzate (nel libro si trova un ritratto affettuoso, per esempio, del lavoro di Giacomo Debenedetti e del suo magistero in vita conclusosi alla fine troppo presto). La critica letteraria aveva, scrive l’autore, una valenza anche politica. Si creavano dibattiti, fazioni, basate queste, il più delle volte, su giudizi quasi sempre motivati dal punto di vista estetico. Quodlibet, per esempio, ha da poco pubblicato il saggio di Angela Borghesi, dal titolo L’anno della “Storia”. Il dibattito politico e culturale sul romanzo di Elsa Morante: un libro che ripercorre le recensioni e i dibattiti sui giornali scaturiti dall’uscita di uno dei testi più belli ma anche più divisivi della letteratura italiana del Novecento.
Quella che oggi viene definita critica ha molto a che fare con gli aspetti del marketing, della comunicazione: ogni libro presentato è “un capolavoro indiscusso”, “un testo fondamentale”, un “romanzo imperdibile”. Molto spesso sono gli stessi scrittori che scrivono recensioni sui loro colleghi in un garbuglio non facilmente districabile. La critica, in questo modo, non può che diventare “subalterna al mercato, pubblicitaria”. Si corrono due rischi, a detta dell’autore, simboleggiati dall’elefante e dalla farfalla: la tuttologia che fa annegare la letteratura «nell’indistinto dei linguaggi e delle occorrenze comunicative», e lo specialismo che finisce «per chiudersi in un’autosufficienza che perde ogni rapporto con lo spazio culturale contemporaneo, in ricostruzioni elefantiache e/o minutissime, in tecnicismi asfittici, produzione di saggi e di edizioni su autori minori e minimi, che non troveranno mai un lettore». Secondo Ferroni, poi, la linguistica negli ultimi anni, nonostante il declino dello strutturalismo, ha preso troppo campo contro la critica letteraria, sottraendole lo spazio necessario:
«Di fronte alla diffusa preoccupazione per lo stato della lingua italiana, per il suo impoverirsi negli usi delle giovani generazioni e dei cosiddetti nativi digitali, appare oggi preminente l’attenzione dei linguisti (mentre scarsa è quella dei critici letterari): e di conseguenza i media si rivolgono principalmente ai loro pareri, tanto che essi si fanno sempre più carico di prendere in considerazione la letteratura, di assumere l’ufficio di défense et illustrationdella lingua e della letteratura italiana».
Mi sembra, quest’ultima, una polemica sterile da parte dell’autore; anzi, forse il lavoro dei linguisti in questo periodo è stato di grande aiuto, soprattutto per le “aggressioni” vecchie e nuove che ha subito e subisce la lingua italiana, in bilico tra linguaggi settoriali auto-escludenti e termini stranieri, soprattutto inglesi, che non hanno di per sé alcuna giustificazione. Non vedo invasioni di campo così nette, così “invalidanti” per la critica letteraria.
La questione principale è secondo me che la critica ha veramente senso e significato soltanto se il libro, come scriveva Kafka, rappresenta un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Oggi, invece, ci troviamo di fronte a un mercato editoriale, un mercato artistico, che vuole più che altro dei “prodotti” che possano soddisfare e magari confermare, non “mettere in pericolo”, le convinzioni dei lettori. E gli scrittori a quel punto rischiano di diventare delle rockstar, dei performer (i più fortunati, naturalmente), non potendo fare a meno della benevolenza del maggior numero di consumatori. Nelle università americane, come ha detto qualche tempo fa Jhumpa Lahiri, si sta smettendo di leggere libri giudicati “troppo disturbanti” (l’autrice americana fa gli esempi di Primo Levi, Agota Kristóf, Vladimir Nabokov). Cosa fare quindi?
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La critica, secondo Ferroni, «non può non agire in opposizione a quello che appare l’universo della comunicazione dominante, l’impero del pensiero unico economico e computazionale, che vorrebbe ridurla a supporto di mercato». Soltanto resistendo e interrogando la propria differenza la critica può continuare a fornire le chiavi migliori per scoprire l’autentica bellezza dei testi e mettere in guardia contro i “pacchi” del marketing.
Per la prima foto, copyright: Blaz Photo su Unsplash.
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