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“Conta fino a dieci”. Intervista a Paolo Cammilli

“Conta fino a dieci”. Intervista a Paolo CammilliPensare che il gioco del nascondino possa essere una chiave d’accesso per scoprire una narrativa autentica è un’idea particolare, ma efficace del toscano Paolo Cammilli.

Conta fino a dieci è un thriller di Paolo Cammilli, edito da Sperling&Kupfer e figlio di una gestazione a dir poco rapida per un romanzo. «Il libro fra una cosa e un’altra l’ho scritto in due mesi», così commenta lo stesso autore. Lo abbiamo incontrato con tutta la sua goliardica verve alla libreria Open di Milano per una chiacchierata fra blogger. D’altronde Cammilli tiene in considerazione, con una certa vena polemica, la critica letteraria online, anzi la predilige alla recensione cartacea dei quotidiani, perché viene data voce anche a scrittori meno famosi dei partecipanti ai concorsi nazionali.

Che tipo di romanzo è il suo? Cammilli non lo accomuna a nessuna categoria (è pur vero che non ama le etichette), ma preferisce definirlo un romanzo con venature di thriller.

L’elemento forte del suo libro? «Viviamo di finzione e simulazione quotidiana, laddove i personaggi che ci circondano sono finti; i miei, di contro, sono veri». C’è suspense, certo, ma c’è anche un valore sociale riconosciuto nella sua narrativa. È un romanzo sociologicamente, anzi antropologicamente ben impostato e attrae il lettore per la sua capacità di tenere alta la tensione fino allo scioglimento finale. In realtà non va sottovalutata nemmeno la forte componente umoristica, che brilla nelle similitudini e nei tratti descrittivi. Si potrebbe definire questo libro un thriller umoristico, ma il valore importante è la verisimiglianza sociale del contesto periferico e delle relazioni sociali.

Così dichiara il toscano: «Nella vita dei miei libri convive l’aspetto della suspense con quello dei valori sociali e psicologici dell’uomo; ma questo non è un giallo, non c’è il morto e lo schema con il detective perspicace e indomabile, bensì qui ci sono venature di thriller forti e corpose».

Non è certo un atto di alterigia dichiarare una propria linea indipendente da schemi classici, ma è un riconoscersi e amarsi così come ci si presenta davanti al lettore, con tutte le proprie sfaccettature, perché come lo stesso Cammilli ammette: «Tutti i personaggi sono fondamentalmente io».

Dal narratore onnipresente, GPS del lettore moderno, fino alla signora anziana, che porta con sé come unica battuta mezza parola nel libro (la cui funzione, però, sarà centrale per comprenderne la chiave di lettura), passando per tutto l’universo vario dei personaggi di questo thriller, ognuno è un lato nascosto dello scrittore stesso, anche se per implementarne il valore narrativo ciascuno ha un suo registro linguistico e un suo valore sociale.

 

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Infatti, chi si accinge a leggere questa storia non si aspetti di comprendere le motivazioni di scrittura dopo i primi capitoli. Il narratore gioca a confondere le carte peggio di quel che fa il protagonista Oscar Baldisserri e, sebbene sappia tutto sin dal principio, la mescolanza dei punti di vista dei personaggi, l’italiano popolare con cui si esprimono e la condizione psicologica che li fa agire spostano il navigatore da una parte all’altra della narrazione.

“Conta fino a dieci”. Intervista a Paolo Cammilli

È una tecnica nuova questa? Paolo Cammilli risponde così: «Bisogna saper riportare sulla pagina il punto di vista dei personaggi e trovo sia giusto rischiare di confondere il lettore per dare vita a un romanzo, dove i punti di vista diversi dei protagonisti emergano e così cambino anche la lingua degli stessi e il registro linguistico. Ovviamente per poter gestire un flusso polifonico così vario è necessario imbastire un narratore onnisciente, che è l’unica soluzione possibile per non sconfinare nel caotico e nel dispersivo».

 

Di quali personaggi parliamo? Che storia è quella che lo scrittore fiorentino ci propone? Siamo nel comprensorio di un quartiere povero e trasandato di Catania, esattamente località Cielo Rosso, nei pressi di Librino. Qui vivono in case popolari ex carcerati, famiglie con gravose condizioni economiche e ragazzi abbandonati alle droghe e trascurati dai genitori. I fanciulli giocano a calcio, sono sotto stretta osservazione dei mini clan, dove vige il nonnismo da sottomissione e possono ritrovare un’angusta libertà fra i campi aperti e il mostro (un gigantesco accatastamento di materiali di scarto). Eppure sono più maturi dei loro coetanei nazionali, perché vivono da sempre in una capsula di omertà collettiva, che li accomuna e li marchia sin da piccoli.

Accadono cose misteriose e tenebrose: i bambini giocano a nascondino, ma alla fine della conta qualcuno sparisce o in passato è sparito e degli scomparsi non s’è mai saputo più nulla.

Qui vi capita, per sbaglio, un tale di Desenzano del Garda, di nome Oscar Baldisserri. Un uomo molto egocentrico, fondamentalmente disastrato e fantozziano agli occhi di tutti. Compare, lui venuto dal Nord, in quell’ambiente ostile e a tratti primitivo, dove le regole sono ubbidire, tacere e non sapere.

Fra quei casermoni, questo fallito manager musicale, si trasforma involontariamente in un detective in incognito e cerca di scoprire la verità e giungere a un suo personale riscatto sociale.

Per entrare nel cuore degli abitanti (per quanto possibile) e per trovar un pertugio da cui cominciare la ricerca, il nostro si avvicina a un bambino, preso di mira dai coetanei e piuttosto goffo, di nome Fortunato.

Come si spiega quest’amicizia? Dalle parole dirette dello scrittore: «I protagonisti sono tanti, ma tre sono i principali: il bambino, Matilde e Oscar. Il bambino rappresenta l’incapacità di esprimersi fino in fondo. Lui vede in Oscar un eroe, seppur non lo è. Emerge la trasparenza delle due figure! Entrambi si vedono per quello che sono. Fortunato capisce che Oscar è uno diverso dagli altri, perché, nel bene o nel male, è l’unico vero».

Il piccoletto di sei anni vede nel quarantacinquenne adulto il suo idolo, mentre Matilde (minorenne dal passato oscuro) prima accoglie il nordico con uno sputo in faccia, per poi ritrovarsi a innamorarsene.

Oscar si trova sempre più ambientato (almeno fra i minorenni) nel lugubre luogo cittadino, ma non riesce a sbrogliare la matassa fra violenza civile, notizie false e fuorvianti e atti sanguinari. La polizia mostra un interesse ancor meno acceso e il tempo passa fino a quando viene riproposto ai bambini di simulare nuovamente un nascondino per vedere se il rapitore esce allo scoperto. Chi sarà mai l’incubo dei fanciulli in quelle macerie di paura, omertà e terrore?

 

La forza morale e sociale di Conta fino a dieci di Paolo Cammilli è nei suoi personaggi, che, come detto poco fa, non solo riscoprono uno dei molteplici volti dello scrittore, ma sono da osservare con attenzione perché sono veri. Lo stesso scrittore usa quest’aggettivo per compiacerne la creazione: «Sono sanguigni e veri e molto diversi nei vari istanti della storia e a volte si evolvono, c’è chi ci ce la fa e chi no. Fanno cose inattese, perché in questo mondo chiuso (quello del comprensorio) non si dice e fa nulla. È sangue che pulsa a livello fisico e mentale».

“Conta fino a dieci”. Intervista a Paolo Cammilli

In realtà, lo stesso creatore del romanzo ci tiene a sottolineare che il luogo marcio e limitato di questo romanzo è una micro-metafora del mondo odierno: «Ciò che accade in questo quartiere è come se accadesse in ogni zona chiusa e claustrofobica del nostro vivere quotidiano».

Addirittura andando oltre il singolo contesto periferico, il suggerimento che ci viene sibilato dallo scrittore è quello di vedervi un luogo psicologico prima che reale, un po’ come nel capolavoro di S. King It , quando si scopre che il killer non è altro che una creatura generata dalle paure dei protagonisti. Paolo Cammilli non ci dice questo, ma lo fa capire con una frase sospesa: «Proviamo a pensare ai piccoli rancori che ci teniamo dentro» e ci sarebbe da aggiungere e immaginiamo di lasciarli rinchiusi in un comprensorio, fino a quando non sfoceranno in azioni violente e perverse?

Il locus ambientale e romanzesco si fa psicologico: il quartiere nemico e degradante può essere benissimo la nostra mente, quella dell’uomo di oggi, che ha smesso di essere vero e s’è sempre più orientato verso una falsità di atteggiamenti e intenti dichiarativi. Se è palese che il microcosmo di Cammilli ricorda quei quartieri malfamati citati più volte ai TG nazionali, caratterizzati da autoreferenzialità e criminalità possidente, non si può sottovalutare che un luogo, come quello di Cielo Rosso (metafora per tramonto della civiltà?), attraente “da un punto di vista turistico” (si colga qui la nota ironica), per il mostro è la sintesi dell’aberrante status della società odierna. In quell’essere mostruoso ci sono le stragi familiari di oggi, le violenze nascoste sui bambini, le angherie rivolte al mondo femminile e tutto un composito di putrefazione morale, a cui, paradossalmente, ci siamo abituati.

Come risponde la famiglia di fronte a questo disfacimento netto? Così si pone Paolo Cammilli: «La famiglia si può salvare, se ci sono persone che, comunque, sono perbene e hanno un minimo di coraggio a esternare i valori reali, altrimenti ci si ritrova nell’ambito della simulazione. La famiglia ha un’osmosi fondamentale: dire cosa va fatto e non imporlo! Soltanto così chi avrà commesso un errore, sarà poi incoraggiato a svelarlo, senza temere conseguenze violente».

Per mettere in evidenza questa società in sfacelo, non basta trovare le giuste contrapposizioni e similitudini, ma servono confronti e contrasti. Così, agghiacciante, è per Baldisserri la contrapposizione fra le sue origini e questo comprensorio catanese, altrettanto lo è fra un anti-eroe (lo stesso Oscar) e i piccoli fanciulli del romanzo. L’idea di inserire il diverso in una realtà così chiusa, non genera giudizio di valore, ma genera la presa di coscienza della sconfitta umana. In termini pirandelliani così si esprime Cammilli: «Il protagonista è un anti-eroe? Sì, è un uomo vero, seppur estremizzato. Anche Oscar ha una quota di purezza e le sue maschere non reggono mai! Oscar non si nasconde e ammette sempre ogni suo stato d’animo ed emozione del momento. Non sa prendersi in giro, perché è vero nella sua vita. Oscar è un personaggio fuori contesto in questa Sicilia».

A quali scrittori si è ispirato? «A livello di trama gialla è tutta fantasia, ma per lo stile e le parti comiche ho guardato verso Ammaniti, che a sua volta è stato ispirato da Villaggio. Per il thriller, invece, l’innovazione del collegamento con l’aspetto sociale è un’idea partorita dalla mia narrativa».

Sulla lingua e le similitudini fortemente collegate a uno slang anni ’80 ti sei mai posto il problema del lettore, che magari non colga il mordente di certe battute, perché avulso dai riferimenti della tua epoca?

Paolo Cammilli non riflette nemmeno un attimo sulla domanda e con fermezza afferma: «Anche oggi gli anni Ottanta si stanno riproponendo e quindi non penso ci possa essere un rischio di esclusione per nessuno durante la lettura».

 

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Storie che nascono da summa di cronache cittadine, le cui radici sprofondano nella realtà più viscerale, personaggi eroici nel loro agire quotidiano (quasi un ritorno di neorealismo pratoliniano), descrizioni ambientali non troppo prolisse e snob e un’avvolgente umoristica componente anti-eroica a tratti addirittura trash (nei modi di pensare e agire c’è sia Paolo Villaggio quanto uno scoppiettante Lino Banfi) danno vigore a una realtà narrativa concreta, sociologicamente interessante e divertente.

Paolo Cammilli cerca il rapporto più sincero possibile con il lettore e punta non al suo gusto di genere, ma al cuore: emozionare, commuovere, riflettere e ridere. Sembra nata per questo scopo la sua penna, che è giunta già al terzo libro in pochi anni e che punta con lo sguardo al quarto.

Che storia sarà? «Il prossimo libro è una bomba! Non è ambientato in Italia ed è collegato a una delle cose più incredibili che sia successa nella storia. Un fatto storico gravissimo, che non ha avuto la giusta eco».


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