Conoscere il calcio per conoscere la storia. “Una casacca di seta blu” di Paolo Frusca
Una casacca di seta blu di Paolo Frusca è il primo libro che lo scrittore bresciano ha scritto e ideato da solo. Edito da Mondadori e pubblicato nel giugno 2020.
Dopo alcune collaborazioni con altri autori (fra cui evidenziamo quella con Federico Buffa dedicata alle Olimpiadi del 1936 e che ha portato alla pubblicazione di L’ultima estate di Berlino, sempre per Mondadori), lo scrittore, che da anni vive in Austria, si cimenta in questo romanzo che è difficilmente classificabile fra i generi consolidati.
Lo si potrebbe definire un racconto sportivo, ma sarebbe troppo riduttivo; lo si potrebbe delineare come un thriller, ma in questo caso mancano molte caratteristiche del genere; e infine lo si potrebbe classificare come romanzo biografico, ma l’aspetto monografico centrato sul protagonista non restituisce il giusto valore a tutto il romanzo.
Una casacca di seta blu di Paolo Frusca è una storia vera intrecciata con una vicenda verosimile. Il termine già dovrebbe far risuonare al lettore una cara vecchia definizione manzoniana del romanzo storico. E non a caso ci troviamo davanti alla storia come attrice principale su un palcoscenico che digrada sempre più verso l’abisso infernale: razzismo, omertà, paura, deportazione, tragedia e morte.
Resta il mistero di chiedersi come mai o per quale motivo l’autore abbia deciso di riportare in auge e di far conoscere la figura calcistica di Bela Guttmann.
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Bela Guttmann è stato un ex calciatore e allenatore ungherese che ha letteralmente condizionato la storia del calcio sia da professionista sia da mister in panchina.Una persona che, a chi non è informato sulle vicende del calcio austriaco, può sembrare estranea, ma che, come si evince da quel che è stato scritto in questo libro, era un uomo di calcio rispettato e apprezzato.
E d’altronde il personaggio Guttmann entra in scena sin dall’inizio. Un arzillo “vecchietto” che gioca a svignarsela dalla camera, scavalca il recinto di una casa di cura e si fa accompagnare da un giovane maestro di scuola in giro per la capitale viennese degli anni Settanta e Ottanta. Ed è da questo espediente che prende avvio una storia che svela retroscena, riporta il lettore indietro nei decenni e lo trasborda dagli inizi del calcio alla sua ripresa dopo la Seconda guerra mondiale.
Opposti che si attraggono: Gudlacek (figlio dell’amico giornalista William e a sua volta amico di Guttmann) e lo stesso giocatore magiaro si fanno compagnia per circa dodici ore alla scoperta di luoghi sconosciuti e poco turistici della capitale austriaca.
Un espediente narrativo interessante che crea dinamicità a una storia che rischia altrimenti di diventare un monologo dell’anziano giocatore. Ogni posto è associato a un ricordo. Così il salto nel passato è sconvolgente e dirompente. Lo stesso Bela Guttmann in prima persona entra in scena nel racconto e si caratterizza per tutto quello che è: temprato, dispotico, esuberante, cinico. Poche volte lo vedi commuoversi, nonostante l’età. Il suo cipiglio resta sempre quello degli Anni d’oro. Come se ci fosse un continuum fra il Bela di oggi e quello del 1924 o del 1935 o del 1946/47.
Eppure di strada, di tremendi passaggi storici e di situazioni al limite del vivibile l’ungherese ne ha vissuti. Ma nulla sembra avergli addolcito il carattere e svilito la lucidità della memoria.
Bela Guttmann non demorde mai. Non perde mai le sue convinzioni, le sue idee e la sua filosofia, come se non fosse mai cambiato di carattere. Lui ha dato tutto al calcio e il calcio gli ha restituito parecchie soddisfazioni.
E al contrario Martin Gudlacek di calcio non sa proprio niente, ma suo padre fu un famoso giornalista sportivo. Non conosce nomi, tattiche, non ha mai visto una partita. È proprio questa contrapposizione a rafforzare il rapporto fra i due e a regalare quelle emozioni inaspettate al lettore.
Ecco perché Una casacca di seta blu non si può definire solo un romanzo sportivo.
Certo, del football giocato, vissuto, amato c’è tanto. Ci sono per esempio i puntuali riscontri dei tabellini storici delle sfide di cui si parla. Ci sono episodi che sono accaduti realmente. Ci sono nomi di giocatori famosi e schemi tattici. Ma c’è molto di più di una semplice cronaca sportiva, c’è un mondo che a noi di oggi (fan del calcio miliardario, degli sponsor, dei giocatori e dei procuratori) appare distante anni luce.
Lo riscopriamo grazie a questo Bela Guttmann che racconta di sé e del suo passato. Uno che oltre ad aver aperto il mondo del pallone a nuove tattiche ha vinto tanto e ancora oggi è nella storia di club prestigiosi. Per esempio il Benfica a cui regalò due Coppe dei Campioni nel 1961 e nel ‘62.
Però, purtroppo, questo romanzo non rispolvera solo fuoriclasse sconosciuti oggi (come l’emblematico “cartavelina” Sindelar), ma riapre le nostre menti al fosco decennio che anticipò la Grande Tragedia. Quella stessa che, in alcuni aneddoti, è riportata con cura di particolari e con immagini vivissime. E sarebbero un’infinità i temi, a questo punto, da sviscerare: la paura ebraica, le fughe clandestine, i palazzi distrutti dalle bombe, giocatori morti in battaglia e storie di campi di prigionia.
Un contesto, quello pre-bellico e bellico, che viene raccontato più dall’ex amico Gudlacek (padre), la cui penna raffinatissima non può non emozionare e incantare. Un valore che lo stesso Guttmann, alquanto avaro nel fare i complimenti, gli riconosce sempre nel libro. Una professione d’umiltà che quasi piega il capo all’irascibile e millantatore allenatore ungherese. Due attributi che vengono giustificati dal curriculum di un uomo che ha rinnovato il calcio brasiliano e ha vinto trofei prestigiosi, ma ha anche subito sconfitte umilianti e spesso rovinato squadre e società. Insomma un Bela Guttmann a due facce (quella vincente e quella perdente) che, però, nel romanzo non ammette quasi mai i suoi errori. Tanto è vero che il mistero che portò alla fine dell’amicizia fra il giornalista e l’amico magiaro è figlio dell’orgoglio impavido di Bela.
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Una casacca di seta blu di Paolo Frusca è in definitiva un romanzo piacevole, scorrevole e accattivante che esalta, per certo, il popolo del calcio giocato e che nello stesso tempo dipinge lo sfondo tetro della sciagura bellica.
Da quegli atteggiamenti di una certa borghesia filonazista o dalle paure di una donna sopravvissuta alla guerra si avverte quello stesso senso di grigia inerzia disperazione che pervade i racconti dei nostri neorealisti e dei poeti che l’hanno vissuta.
E in questo il calcio ha rappresentato davvero un valore positivo, perché è stato uno dei primi testimoni di un ritorno alla vita. Questo sport, che ormai ha più di un secolo, sfangato da quella sua apparenza idolatrica è per davvero lo specchio della società e dei suoi costumi.
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