Conclusioni postmoderne sul Postmoderno
La nostra rubrica giunge alle ultime battute. Nella speranza di essere stati d’interesse per qualcuno, di chiarimento per qualcun altro e semplicemente non troppo noiosi per tutti gli altri, non ci resta che tentare di trarre alcune conclusioni generali. Delle conclusioni postmoderne. E quindi delle conclusioni non conclusive.
Per semplicità divideremo le considerazioni finali in due ordini di discorso; il primo di carattere più “riassuntivo”, il secondo di carattere “critico”. Il significato di “riassuntivo”, anche se tra virgolette, è abbastanza evidente. Il significato di “critico” merita forse qualche precisazione; significa che chi scrive si permette il lusso di proporre delle interpretazioni e delle opinioni personali, rischiose e suscettibili di disapprovazione.
Fino a qui abbiamo toccato tre ambiti fondamentali, tre campi d’applicazione del termine Postmoderno che, per comodità, definiremo filosofico, artistico e sociale. All’interno di questi l’elemento postmoderno si configura di volta in volta come atteggiamento teorico-ermeneutico, tendenza e modo di operare o condizione epocale. In campo filosofico l’atteggiamento postmoderno è proprio di chi mette in dubbio le verità assolute e la fiducia nel progresso, decostruisce la storia del pensiero, in favore di un relativismo antimetafisico che preferisce alle grandi «metanarrazioni», false e convenzionali, i piccoli discorsi, il «pensiero debole», le piccole certezze. In campo artistico invece, il rifiuto del realismo illusorio, lo smantellamento dell’«opera totale» si traducono nell’esaltazione del dettaglio, nel mescolamento degli stili e delle forme, nel continuo, giocoso, ammiccare al pubblico; il tentativo è quello di nascondere il significato più profondo delle cose dietro un gioco di ombre e di riflessi che possa mortificare e allo stesso tempo stimolare, il compito della ricerca di senso.
Tentando di comporre il quadro, a questo punto, è evidente come entrambi i primi due ambiti, filosofico e artistico, siano contenuti, in un perfetto sistema a cornice, all’interno del terzo, quello sociale, o, per meglio dire epocale. L’atteggiamento e le tendenze postmoderne hanno valore solo all’interno delle incredibili trasformazioni che il mondo e la nostra civiltà hanno subito nell’ultimo secolo. Possono essere letti e interpretati solo in rapporto agli sviluppi nei trasporti e nelle comunicazioni, ai cambiamenti economici, alla tragedia delle guerre e dell’atomica, all’uomo sulla Luna, ai fast-food, ai media, alla globalizzazione, alla terziarizzazione, all’espansione demografica, democratica e post-democratica.
In questo senso tutta l’esperienza Postmoderna può essere intesa come un’esperienza di passaggio, uno stare in bilico tra il vecchio e il nuovo. Colin Crouch nel suo ormai celeberrimo saggio Postdemocrazia (Laterza, 2003), in un certo senso delinea la traiettoria di questo passaggio epocale. Riassumiamo qui per ragioni di spazio: considerato un fenomeno X si nota sempre un periodo pre-X in cui il fenomeno è in fase embrionale, un periodo X in cui esso si afferma e impone e un periodo post-X in cui esso si modifica cedendo il posto ad altri fenomeni, per tornare a un’altra fase pre-X. Non a caso, più volte, nel corso della rubrica, abbiamo parlato di «fine». La fine e la scomparsa sono concetti ricorrenti nei dibattiti critici degli ultimi anni: fine della metafisica, fine delle metanarrazioni, fine delle distinzioni di classe, fine delle ideologie, fine della storia, morte dell’autore, fine anche della critica stessa.
L’uomo postmoderno (che abita la postmodernità) sembra condannato a resistere alla fine. Come l’anguilla montaliana, striscia tra le macerie e le rovine del passato, consapevole delle perdite e dei disastri, cercando, nel fango e nella palude, delle strade e delle vie che siano ancora percorribili.
Questa lettura però – e qui comincia la nostra parte “critica” – va epurata da un possibile elemento di contraddizione. L’atteggiamento postmoderno potrebbe sembrare, in questa maniera, nostalgico e rassegnato, quasi arreso, mentre invece esso non vive di questa rassegnazione. L’artista e il filosofo postmoderni si acquattano tra i rottami delle precedenti epoche solo per rimettere insieme i pezzi. Il nichilismo postmoderno è nichilismo attivo, vitale e ottimistico.
Molti critici del Postmoderno, citiamo Fredric Jameson che tra tutti è forse il più celebre e il più accanito, si sono soffermati proprio sull’apparente resa del Postmoderno e contro di essa hanno mosso i loro strali. Il discorso, da tradurre in chiave marxista, è che la deformazione della società e della storia va attribuita alla vittoria del modello capitalista. Nel nostro mondo capitalista si tende a porre tutto sullo stesso piano, a spezzettare ogni principio e ogni valore, a svuotarli dall’interno per illuminare dei gusci vuoti. Allora il Postmoderno – che esalta il miscuglio e il relativismo – incarnerebbe proprio la logica capitalistica (parafrasando il titolo di un saggio di Jameson). L’unica via di fuga dal degrado consisterebbe nell’uscita dal sistema capitalistico, quindi nella demolizione delle teorie postmoderne e in un ritorno al passato. È senz’altro una chiave di lettura autorevole (e come potrebbe non esserlo), ma nonostante tutto, ci sentiamo di proporre una lettura alternativa.
L’atteggiamento postmoderno è invece proprio di chi, accettando che un’epoca sia volta al termine, con le sue cattedrali ideologiche e le sue contraddizioni, mostra la sua volontà di sopravvivere. E la sopravvivenza è il primo atto di resistenza possibile. L’atteggiamento postmoderno è quello del malato che ha capito quanto la malattia sia cronica e accetta la cura estrema. È l’atteggiamento dell’amante che sa che l’unico modo per odiare qualcosa è di amarla disperatamente. La filosofia e l’arte postmoderne hanno compreso che il nostro mondo e la nostra società sono quelle che sono e non quelle che avremmo voluto che fossero. Se è possibile cambiare si può fare solo dall’interno di essi, solo dopo aver accettato che alcune perdite sono definitive ed erano iscritte nell’ordine delle cose, che alcune battaglie erano perse già dall’inizio. Dunque anziché guardare indietro, verso una perfezione teorizzata e mai compiuta, bisogna guardare avanti, ricostruire, trovare nuove prospettive di esistenza che si adattino alla nostra società, ai suoi problemi e preoccupazioni.
Zygmunt Bauman ne Il disagio della postmodernità (Bruno Mondadori, 2002) racconta l’esperimento dell’artista ungherese Gediminas Urbonas, il quale fece appendere lungo una strada quattro recipienti; tre di essi contenevano oggetti artistici, l’ultimo era vuoto. Dopo giorni notò, senza sorpresa, che i passanti si soffermavano solo su quello vuoto. Era quello vuoto infatti a dare un senso agli altri tre. L’esempio è utile per comprendere, con aria vagamente heideggeriana, il nostro bisogno epocale di fare i conti con il nulla e da questa esperienza con il nulla tornare indietro. È lì che si muovono la filosofia e l’arte postmoderna. Il silenzio di Cage, i colori di Pollock, i volti immutabili di Warhol, le trame indecifrabili di Pynchon, il relativismo di Bret Easton Ellis, il decostruzionismo di Derrida, la filosofia di Vattimo e Deleuze, Lyotard, cercano di fare questo; di instaurare un confronto con il nulla, con il vuoto e i fantasmi che la nostra civiltà si è trascinata dietro, cercando il senso non più nell’intero, ma nei frammenti, negli spazi bianchi, nei riflessi, nei feticci, nei rumori di sottofondo.
L’esperienza postmoderna è l’esperienza del passaggio tra il vecchio fallimentare e un nuovo da ri-scoprire e da ri-trovare. È un momento di sosta, un mettersi tra virgolette, un fare i conti con se stessi, per ri-conquistare un’identità che sia davvero recente e attuale, e quindi, eternamente moderna ed eternamente «Post». Per questo il Postmoderno non sarà «il moderno alla fine, ma allo stato nascente, e questo stato è costante».
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