Come raccontare la malattia unendo parole e fotografie
Raccontare la malattia non è mai facile, perché il rischio sempre presente è quello di scadere nel patetico, chiudendosi a riccio nel dolore che invece dovrebbe essere comunicato. E questo accade ancora di più quando la malattia che dobbiamo raccontare è la nostra. Allora il dolore potrebbe diventare davvero l’unico sentimento a permeare la nostra narrazione, al punto da appiattire tutto il racconto su quell’unico stato d’animo.
A questo rischio è sfuggita Stefania Spadoni, autrice di Come mi senti?, volume che unisce racconti e fotografie edito di recente da Gallucci e che sarà al centro di una mostra ad Asti fino al 29 ottobre 2017.
Stefania ha deciso di raccontare il percorso di tre anni che va dalla diagnosi della malattia (linfoma di Hodgkin chemioresistente) alla guarigione grazie a un trapianto di midollo da parte di un donatore. Il volume è diviso in due parti. Nella prima si susseguono trenta racconti autobiografici, «racconti che hanno vita propria, e lo stesso vale per le fotografie che li accompagnano. Al centro, il soggetto fotografato a cui viene posta la domanda “Come mi senti?”» rivela la stessa Stefania. Nella seconda parte, invece, Spadoni ci apre al processo di guarigione con un unico racconto che parte dal trapianto a cui è stata soggetta.
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Il tutto accompagnato da una serie di autoritratti fotografici che, come informa Stefania, «spaziano da prima della diagnosi fino ad oggi e rappresentano una sorta di conclusione del libro in cui espongo le mie inquietudini più profonde e parlo in prima persona, attraverso le mie foto, di come mi sento».
È con parole semplici ma profonde, con immagini dense che Stefania Spadoni ha voluto mettersi a nudo, senza nascondersi e rivelando ogni sfumatura del suo stato d’animo:
«L’affetto delle persone, chissà perché, tende decisamente ad aumentare quando sei malata. Ancora di più se disgraziatamente ti ritrovi in un letto d’ospedale. Se poi hai una malattia che mette a rischio la tua vita, come il cancro ad esempio, la presenza affettiva diventa ancora più forte, più serrata, più importante, più soffocante. Ed è meravigliosamente bello, così umano, così fondamentale eppure così pesante. Perché io sono stanca e apatica e non ho voglia di vedere nessuno, non voglio sostenere conversazioni, non mi va di sorridere, non posso condividere perché è troppo e voglio solo stare qui da sola con gli occhi chiusi».
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Forse raccontare, anche solo a se stessi, la propria malattia può essere di aiuto non diciamo nel processo di guarigione, ma ad affrontare la sfida che ci attende?
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