Come diventare se stessi, secondo Nietzsche
Friedrich Nietzsche considerava il viaggio verso la scoperta del proprio vero sé come una delle difficoltà esistenziali insieme più dure e più feconde per l’uomo.
Nel 1873, mentre si avvicinava al suo trentesimo compleanno, Nietzsche si occupò dell’eterna questione di come diventare se stessi in un bellissimo saggio intitolato Schopenhauer come educatore.
Qui Nietzsche, come riporta BrainPickings, apre la sua riflessione indicando qual è la via attraverso la quale si giunge a scoprire qual è il vero sé:
Qualunque essere umano che non desidera essere parte della massa deve solo smettere di fare cose facili per se stesso. Deve seguire la sua coscienza, che gli grida: «Sii te stesso! Tutto quello che stai facendo, pensando, desiderando, tutto questo non sei tu».
Ogni giovane anima ascolta questa chiamata giorno e notte e freme di eccitazione presagendo il grado di felicità che l’eternità ha preparato per quelli che riflettono sulla loro vera liberazione. Non c’è modo di aiutare qualsiasi anima a conseguire questa felicità, se essa rimane legata alle catene dell’opinione e della paura. E la vita senza una tale liberazione diventa senza speranza e senza senso! Non c’è nessuna creatura più triste, più infelice in natura dell’uomo che ha eluso il suo genio e che strizza gli occhi ora a destra, ora a sinistra, ora dietro di sé, ora in qualsiasi direzione.
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Nietzsche prende poi in considerazione l’unico vero antidoto a tale tristezza esistenziale:
Nessuno può costruire al posto tuo il ponte sul quale tu, e solo tu, devi attraversare il fiume della vita. Ci potranno essere numerosi sentieri e ponti e semi-dei che vorrebbero lietamente trasportarti, ma solo a costo di dare in pegno e dimenticare te stesso. C’è un percorso nel mondo sul quale nessuno può camminare eccetto te. Dove conduce? Non fare domande, cammina!
Ma questo percorso per trovare noi stessi, puntualizza Nietzsche, non è una passeggiata leggera:
Come può un uomo conoscere se stesso? È una questione buia, misteriosa: se una lepre ha sette pelli, un uomo può togliersi la pelle settanta volta sette senza poter dire, «Questo ora sei veramente tu, questo non è più il tuo esterno». Perciò è anche un’impresa agonizzante, rischiosa quella di scavare dentro di sé, scendere tenacemente e direttamente nei tunnel del proprio essere. Quanto è facile infliggersi da soli delle ferite che nessun medico può guarire. Inoltre, perché dovrebbe essere addirittura necessario dato che ogni cosa testimonia il nostro essere: le nostre amicizie e animosità, i nostri sguardi e le strette di mano, quello che ricordiamo e ciò che dimentichiamo, i nostri libri e le nostre penne. Per la ferita più importante, tuttavia, c’è un metodo. Lascia che la giovane anima interroghi la propria vita a partire da questa domanda: «Cosa hai tanto amato finora? Che cosa ha mai elevato la tua anima, cosa l’ha dominata e cosa le ha donato piacere allo stesso tempo?» Metti questi oggetti in fila davanti a te e forse ti riveleranno una legge sulla base della loro natura e del loro ordine: la legge fondamentale del tuo vero sé. Compara questi oggetti, vedi come si completano, si accrescono, si superano, si trasfigurano a vicenda; come formano una scala sui cui gradini sono saliti fino a te; perché il tuo vero sé non giace sepolto profondamente dentro di te, ma piuttosto si innalza incommensurabilmente sopra di te, o almeno al di sopra di quello che comunemente consideri essere il tuo io.
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Nietzsche ritorna poi sul vero ruolo dell’educazione in questo processo di scavo del vero sé e scrive:
I tuoi veri educatori e allevatori ti riveleranno il senso originale e la materia di base del tuo essere, qualcosa che non è in ultima analisi suscettibile all’educazione e all’allevamento da parte di chiunque altro, ma a cui è sempre difficile accedere, qualcosa di legato e immobilizzato; i tuoi educatori non possono andare oltre diventando i tuoi liberatori. E questo è il segreto di tutta la vera cultura: non ci presenta con arti artificiali, nasi di cera o occhiali, perché tali doni ci lasciano semplicemente con una finta immagine di educazione. Essa è invece liberazione, che strappa le erbacce, rimuove le macerie, scaccia i parassiti che rosicchierebbero le radici tenere e i germogli della pianta; è un’effusione di luce e calore, una tenera goccia di pioggia notturna…
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E poi conclude:
Potrebbero esserci altri metodi per trovare se stessi, per svegliarsi fuori dall’anestesia in cui in genere siamo avvolti come se fossimo in una cupa nuvola, ma io non ne conosco nessuno migliore di quello di riflettere sui propri educatori e allevatori.
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