Come coinvolgere il lettore nella propria storia
Molti autori quando scrivono si chiedono come coinvolgere il lettore nella propria storia e questo è il motivo per cui oggi ho deciso di mostrare l’efficacia del rimanere imparziali quando si scrive. Per farlo mi sono servita de L’ibisco viola di Chimamanda Ngozi Adichie, edito da Einaudi nella traduzione di Maria Giuseppina Cavallo.
È importante conoscere la trama per sommi capi per capire le criticità del romanzo. Kambili è una ragazzina di quindici anni che vive in Nigeria assieme ai genitori e al fratello Jaja. Sin dalle prime pagine è chiara l’adorazione che la protagonista prova nei confronti del padre, sentimento che anima tutta la comunità che lo elogia per il suo altruismo e la grande generosità. All’interno delle mura domestiche però, il padre si trasforma in un fanatico religioso che cresce i propri figli nella paura infliggendo loro pesanti punizioni.
È così, con le prime rotture nella quotidianità e in quei gesti consolatori atti a ripristinarla, che conosciamo la violenza con cui questa famiglia deve fare i conti. A cominciare dalla madre, dai segni violacei che porta sul viso, al sangue che dopo i litigi lascia sulle scale e al modo in cui, dopo ogni violenza, apre la vetrina per pulire delle piccole statuine; agli orari che scandiscono le giornate di Kambili e Jaja che il padre consegna loro perché dedichino il giusto tempo alla preghiera, allo studio e alla famiglia, fino a quelle crudeli punizioni, con la cintura di pelle che fende l’aria o il bastone sul pavimento del bagno. Punizioni che il padre infligge loro con le lacrime agli occhi, convinto di adempiere ai suoi doveri di buon cristiano.
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L’autrice descrive un bastone sul pavimento o una cintura che fende l’aria conscia che il lettore capirà da solo la violenza, che senso avrebbe infatti descrivere la scena in maniera diversa? Non sappiamo tutti che questi oggetti possono essere usati anche in questo modo?
Nel mio lavoro mi capita spesso di leggere testi di autori che tendono a spiegare fin troppo al lettore. Una delle prime lezioni che si impara è, non a caso, il famosissimo: “Show, don’t tell”, tanto noto quanto difficile da applicare.
COSA VUOL DIRE: “MOSTRA, NON SPIEGARE?” E COME SI FA?
L’autrice, in questo caso, inserisce un oggetto che suscita la violenza ‒ un bastone o una cintura ‒ conscia che un’immagine di questo tipo comunicherà efficacemente ciò che vuole esprimere.
Vediamo come:
«Fissai papà. Perché mi chiedeva di entrare nella vasca? Scrutai il pavimento del bagno: non c’era nessun bastone. Forse voleva lasciarmi nel bagno mentre scendeva di sotto e usciva dalla cucina per spezzare un bastone di uno degli alberi nel cortile posteriore. Quando Jaja e io eravamo più piccoli, tra la seconda e la quinta elementare, ci diceva di prendere i bastoni da soli. Noi sceglievamo sempre il filao perché i rami erano flessibili, non facevano male come quelli più duri delle gmelina o dell’avocado. E Jaja immergeva i bastoni nell’acqua fredda perché diceva che così facevano meno male quando ti piombavano addosso. […] Non mi aveva mai chiesto di mettermi in piedi dentro la vasca. Poi vidi il bollitore verde che Sisi usava per riscaldare l’acqua del tè e del garri, quello che fischiava quando l’acqua cominciava a bollire».
Quante informazioni preziose ci dà l’autrice in poche righe? Ci mostra prima di tutto Kambili che si chiede come mai in bagno manchi il bastone, questo porta il lettore a collegarlo a un’azione abituale. L’autrice poi prosegue, non ci spiega che il padre è violento, perché sa che non sarebbe efficace, ci dice invece che i due bambini sin da piccoli (tra la seconda e la quinta elementare) si andavano a cercare da soli i bastoni e che questo avveniva tanto di frequente da aver trovato degli escamotage per soffrire meno. Poi introduce l’elemento nuovo: il bollitore. Non descrive la paura, come farebbe uno scrittore alle prime armi ma ci spiega che quel bollitore viene usato per il tè, quello che lei beve con il padre, il “sorso d’amore” che per Kambili è sempre troppo bollente. Il lettore già sa, dato che l’autrice ha descritto la scena, che il padre verserà l’acqua bollente sui piedi di Kambili ma senza la descrizione della paura non può che rimanere atterrito mentre legge il susseguirsi della scena.
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I VANTAGGI
L’autrice sa bene che l’astensione dai giudizi quando si descrive una scena comporta un immediato guadagno: il coinvolgimento del lettore.
Non aiutato dallo scrittore infatti, il lettore sentirà di dover analizzare e ragionare lui stesso su quanto sta leggendo, in questo modo si sentirà coinvolto nella storia. La condanna o l’assoluzione che ne deriveranno saranno ancora più forti perché frutto di un lavoro mentale e di una collaborazione tra l’autore, che ha curato la caratterizzazione dei personaggi e della scena, e il lettore che ha formulato un giudizio su quanto ha letto.
Non smetterò mai di dire chelo scrupolo che gli autori hanno di dare tante informazioni rischia di far sentire il lettore “imboccato” e ciò lo porterà a non partecipare alla storia dato che l’autore stesso si è preso la briga di dirgli cosa deve pensare. Non partecipando, potrebbe rischiare di annoiarsi e scegliere di abbandonare la lettura.
«Il muro che circondava la scuola secondaria delle Figlie del Cuore Immacolato era altissimo e assomigliava a quello di casa nostra, ma in cima, invece delle bobine di filo elettrificato, aveva schegge di vetro verde appuntite e taglienti. Papà diceva che quelle mura avevano influenzato la sua scelta quando avevo finito le elementari».
L’autrice ci dà due informazioni vitali. La prima è che anche la loro casa è circondata da una recinzione e la seconda è che sono state quelle recinzioni a fargli scegliere proprio quella scuola. L’autrice non ci sta dicendo che il padre della protagonista è un folle, ce lo sta mostrando, saremo noi a formulare il giudizio.
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E ancora:
«Volevo dire che mi dispiaceva che papà aveva rotto le sue statuine, ma le parole che mi uscirono di bocca furono: ‒ Mi dispiace che le tue statuine si siano rotte, mamma. Lei annuì rapidamente, poi scosse il capo a indicare che le statuine non erano importanti. Ma per lei lo erano. Un tempo prima che capissi, mi chiedevo perché le lucidasse ogni volta che sentivo quei suoni dalla loro stanza, come qualcosa che veniva sbattuto contro la porta. Le sue ciabatte di gomma non facevano rumore sulle scale, ma sapevo che scendeva al piano di sotto quando sentivo aprirsi la porta della sala da pranzo. Scendevo e la vedevo in piedi accanto alla vetrina con un canovaccio di cucina inzuppato di acqua saponata. Dedicava almeno un quarto d’ora a ogni ballerina. Non c’erano mai lacrime sul suo volto. L’ultima volta, solo due settimane prima, quando il suo occhio gonfio era ancora del colore nero-violaceo di un avocado troppo maturo, dopo aver lustrato le statuine le aveva disposte in modo diverso. ‒ Ti intreccerò i capelli dopo pranzo, ‒ disse voltandosi per andarsene».
In questa scena vengono mostrati, se si legge attentamente, due tipi di violenza. La prima, quella di cui è vittima la madre, è una violenza fisica, visibile, mentre l’altra è nascosta. Kambili infatti guarda con ammirazione il padre, quando lui le offre il tè, una scena importante nella lettura, lei lo beve anche se scotta perché crede che quel bruciore sia l’intensità dell’amore che il padre prova per lei. Con questa scena del tè l’autrice ci spiega cosa pensa Kambili dell’amore e lo fa con una maestria impareggiabile.
Kambili infatti non è conscia della violenza, ma l’autrice, descrivendoci la scena, può far capire al lettore il grado di violenza psicologica che questa ragazzina vive e le difficoltà che ha nell’accettare la realtà. Anche quando il pensiero la sfiora, come nel caso delle statuine rotte dal padre, finisce per pronunciare una frase impersonale: «Mi dispiace che le tue statuine si siano rotte».
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L’abitudine di farsi scivolare la violenza di dosso senza considerarne i segni fisici o, come in questo caso, di non considerare la rottura di oggetti importanti, come sono le statuine per la madre che le usa per ristabilire la routine dopo qualcosa che l’ha scossa, sono tutte indicazioni che l’autrice ci invita a cogliere. Il gesto della pulizia delle statuine per esempio ha l’importanza di un rituale perché è capace di riportare la tranquillità, la routine che in questo testo è una parola preziosa. «Dopo ti intreccio i capelli», dice poi la madre alla figlia a significare che la calma è stata ritrovata e che la giornata proseguirà senza altre alterazioni.
Il disagio e la costante sensazione che ci sia qualcosa di agghiacciante mentre si leggono queste pagine portano il lettore a provare una forte empatia per i personaggi.
L’IMPORTANZA DEI DETTAGLI
Per realizzare questo meccanismo dovrai lavorare sui dettagli e su un’efficace costruzione del personaggio.
«L’arredamento color crema della camera da letto di papà veniva cambiato ogni anno ma sempre per una tonalità di crema leggermente diversa. Il soffice tappeto che sprofondava sotto i piedi era di un color crema uniforme; le tende avevano soltanto un piccolo ricamo mattone sul bordo; le poltrone di pelle color crema erano l’una accanto all’altra come se ospitassero due persone impegnate in un colloquio intimo. Tutto quel crema si fondeva e faceva sembrare più grande la stanza, come se non finisse mai, come se non si potesse scappare neppure volendo, perché non c’era nessun posto dove scappare. […] Adesso ero seduta su una coperta come quella, sul bordo del letto. Mi tolsi le pantofole, affondai i piedi nel tappeto e decidi di tenerli affondati in modo che le dita dei miei piedi di sentissero protette. In modo che una parte di me si sentisse al sicuro».
Spero che questo articolo ti sia stato utile per imparare una tecnica di scrittura che ritengo fondamentale per poter coinvolgere il lettore nella storia che stai raccontando.
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Per le foto in ordine di inserimento, copyright: Charles Loyer, The Roaming Platypus, rawpixel e Zeny Rosalina su Unsplash.
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