Come affrontare le difficoltà della vita. Intervista a Frida Kahlo
I nostri incontri ravvicinati con gli artisti continuano. Finora abbiamo avuto l'onore di ascoltare le parole di Matisse, sederci accanto a Boccioni. L'emozione continua anche questa volta.
Trovarsi di fronte a Frida Kahlo non è stato semplice, considerando gli aspetti "delicati" che hanno caratterizzato la sua vita. Negli anni è diventata un'icona di stile, di pensiero.
Incontrandola, siamo stati travolti da una realtà piena di colori, di leggerezza, nonostante le sue sofferenze, le sue perdite, le sue rinunce.
Non vogliamo dilungarci troppo perché ad attenderci seduta su una sedia di paglia all'interno della sua cucina dai toni azzurro e giallo a Coyoacán, vicino Città del Messico, c'è lei: Frida Kahlo.
Buongiorno, Frida. Grazie per averci accolto in questa sua meravigliosa casa che ora è un museo. È orgogliosa di tutto questo?
Sì, ne sono felice. Il mio cuore è sempre stato qui, anche quando mi spostavo nelle grandi città, dove c'erano molte più occasioni professionali. Ma non amavo la borghesia. La high society mi infastidiva, provavo rabbia verso tutti quei ricconi, soprattutto perché si vedevano migliaia di persone vivere nella più completa indigenza: è terribile vedere i ricchi impegnati giorno e notte a fare feste, mentre migliaia e migliaia di persone muoiono di fame. Gli americani erano completamente privi di sensibilità e buon gusto. Vivevano in un enorme, sporco e scomodo pollaio. Questo dipinto lo realizzai proprio a Gringolandia [New York].
Ci tolga una curiosità: ma lei dove trovava tutta quell'energia?
Vede, ritenevo di avere energia sufficiente per fare qualcos'altro che non fosse studiare per diventare medico. Quell'incidente mi cambiò la vita: il tram, lo scontro, il corrimano che mi trafisse. Mia sorella Matilde lesse la notizia sui giornali... non mi abbandonò per tre mesi, giorno e notte accanto a me. Per mettermi il busto che avrei dovuto portare per tutta la vita, avendo la colonna vertebrale distrutta, mi hanno appeso per la testa due ore e mezzo. Dovendo rimanere sdraiata, con questo busto di gesso che andava dalla clavicola al bacino, mia madre mi costruì un dispositivo molto ingegnoso a cui appendeva la tavola di legno che mi serviva per appoggiare il foglio. Le venne l'idea di far fare un baldacchino al mio letto, come nel Rinascimento, e di fissarvi uno specchio per tutta la lunghezza, in modo che potessi vedermi e utilizzare la mia immagine come modello. Passavo molto tempo da sola perciò ero il soggetto che conoscevo meglio. Dovevo cercare con tutte le energie di trovare quel poco di positivo che le mie condizioni mi permettevano di fare.
Neppure da bambina le mie condizioni di salute furono facili: a sei anni mi fu diagnosticata la poliomielite. A partire da allora ricordo tutto molto chiaramente.
Ho letto che all'età di sei anni soffriva anche di spina bifida…
A sei anni passai nove mesi a letto a causa della poliomielite. Cominciò con un dolore terribile alla gamba destra. Mi lavavo in una bacinella con acqua di noce e panni caldi. A sette anni portavo degli stivaletti perché la mia gambina rimase molto magra. All'inizio pensai che le burle non mi avrebbero toccata, ma poi mi fecero male. Grazie a mio padre ebbi però un'infanzia meravigliosa. Fu per me un magnifico modello di tenerezza e soprattutto comprendeva tutti i miei problemi. Mi esortò a fare ginnastica per irrubustire la gamba malata.
Parliamo di Diego Rivera, il suo più grande amore.
Ah, Diego. Un tormento che non mi lasciava mai. Abbiamo trascorso assieme dieci anni. Ci siamo sposati il 21 agosto 1929. Avrei dovuto ascoltare mia madre, lei lo riteneva troppo vecchio, grasso, ateo e marxista. La nostra è stata un'unione assolutamente priva di pompa, celebrato modestamente in un ambiente molto cordiale alla presenza di pochi amici intimi. Mi sono pure risposata con lui. Il matrimonio bis va bene. Pochi litigi, maggior comprensione reciproca e, da parte mia, meno indagini noiose rispetto alle altre donne che spesso occuparono una posizione preponderante nel suo cuore.
Lei era a conoscenza di tutti i tradimenti del signor Rivera?
Certo che sì! La prima volta fu con mia sorella Cristina. Quello fu un momento tragico per me. E pensare che fui io a dire a mia sorella di fare da modella per un suo dipinto. In quegli anni il suo matrimonio non andava molto bene, aveva bisogno di soldi e... mi tagliai perfino i capelli.
Alla fine mi sono resa conto che la vita è così e tutto il resto è illusione. Se la mia salute fosse stata migliore avrei potuto dire di essere felice però questo fatto di essermi sentita ridotta così male dalla testa ai piedi, a volte mi scombussolava il cervello e mi faceva passare momenti amari.
Nemmeno lei però era, scusi la provocazione, una "santa"...
Già. Mi piaceva l'amore sia per gli uomini sia per le donne, anzi frequentavo proprio le modelle di Rivera. Una volta Diego mi sorprese nella casa di mia sorella Cristina. Ricordo che entrò con la pistola in pugno.
Si ricorda come ha conosciuto Rivera?
Ci eravamo già visti a una riunione comunista a casa di un amico. Diego sparò a un fonografo! Lo ritenni un gesto impressionante. Lui era un artista molto conosciuto e per questo mi recai a casa sua con le mie opere. Sa che all'età di 21 anni fui la prima donna ad avere un dipinto acquistato dal Louvre?
Cosa la spinse a dipingere?
Ero malata, ho subito in totale trentadue interventi chirurgici, ero spezzata, ma finché riuscivo a dipingere ero felice di essere viva. Dipingere ha arricchito la mia vita. Ho perso tre figli e altre cose che avrebbero potuto colmare la mia vita orribile. La pittura ha preso il posto di tutto questo. Ritengo che il lavoro sia la cosa migliore.
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La convalescenza la portò a intraprendere una strada che la condusse poi al successo. Un po' quello che accadde a Matisse. Le va di raccontarci cosa avvenne in quel terribile 17 settembre 1925? La sua vita cambiò a causa di un ombrellino, giusto?
Salii sull'autobus con Alejandro, il mio fidanzato dell'epoca. Mi sedetti sul bordo, vicino al corrimano. Pochi attimi dopo l'autobus si scontrò con un tram della linea per Xochimilco. Il tram schiacciò l'autobus contro l'angolo della via. Fu un urto strano: non fu violento, ma sordo. Avevo diciott'anni allora, ma sembravo molto più giovane. Eravamo saliti da poco sull'autobus quando ci fu lo scontro. Prima avevamo preso un altro autobus, solo che io avevo perso un ombrellino. Scendemmo a cercarlo e fu così che salimmo su quell'autobus che mi rovinò. Non intuii il genere di ferite che avevo... La prima cosa a cui pensai fu un bilboquet dai bei colori che avevo comprato quel giorno e che portavo con me. L'urto ci spinse in avanti e il corrimano mi trafisse come la spada trafigge un toro. Persi la verginità, avevo un rene leso, non riuscivo a urinare, mi faceva male la colonna vertebrale. Mia madre rimase muta per un mese dallo shock, mia sorella Adriana quando lo seppe svenne, mio padre fu così addolorato che si ammalò.
So che quel giorno ci furono molti feriti e morti. Lei fu una di quelli più gravi, tanto che la Croce Rossa la lasciò per lungo tempo tracoloro che non ce l'avrebbero fatta...
Questo non lo sapevo. All'inizio ho penato ad abituarmi, era una rottura di scatole portare un corsetto prima di acciaio e poi di gesso e sapere che l'avrei portato per tutta la mia vita. Però... l'ho anche riempito di disegni!
Dico sempre che nella mia vita ci sono stati due disastri: Diego Rivera e l'incidente in autobus.
Mi colpisce molto il suo umorismo, la sua leggerezza nell'affrontare le cose.
Ho avuto anche io momenti disperati. Ho tentato il suicidio, mi rifugiavo nell'alcool, prendevo un sacco di medicinali. Tuttavia ho sempre creduto che niente valesse più di una risata. È necessario ridere e abbandonarsi.
Sa cosa ho detto un giorno al mio medico? «Dottore, se mi lascia bere questa tequila prometto che al mio funerale non tocco un goccio».
Ero solita pensare di essere la persona più strana del mondo, ma poi ho pensato: ci sono così tante persone nel mondo, ci dev'essere qualcuna proprio come me, che si sente bizzarra e difettosa nello stesso modo in cui mi sento io. Vorrei immaginarla, e immaginare che lei debba essere là fuori e che anche lei stia pensando a me. Beh, spero che, se tu sei lì fuori e dovessi leggere quest’intervista, tu sappia che sì, è vero, sono qui e sono strana proprio come te.
So che lei lavorò per mantenersi agli studi?
Sì, lavoravo in una falegnameria. Il mio lavoro consisteva nel controllare quante assi uscivano al giorno, quante ne entravano, di che colore erano e di che qualità. Lavoravo di mattina e al pomeriggio andavo a scuola. Mi pagavano 65 pesos al mese.
Si è molto discusso sul motivo che la portò alla morte. Da quel che si legge la causa fu la poliomelite. So che alcuni hanno ipotizzato che sarebbe stato Diego a somministrarle un'alta dose di morfina. Altri dicono che si trattò di suicidio...
La sera prima di morire avevo consegnato a Diego l'anello che avevo acquistato per il nostro venticinquesimo anniversario, che sarebbe caduto diciassette giorni dopo. Sentivo che l'avrei abbandonato presto. Sa che cosa ho scritto nelle ultime pagine del mio diario? «Attendo con gioia la mia dipartita e spero di non ritornare mai più. Frida». E poi ho dipinto un angelo nero.
Diego avrebbe voluto unire le sue ceneri alle mie, ma non l'hanno fatto.
Ora però non parliamo più di tragedia che è la cosa più ridicola.
Sono felice di poter dire finalmente: a che mi servono i piedi, se ora ho le ali per volare?
Grazie Frida, conoscerla è stato davvero emozionante.
Se volete immergervi ulteriormente nella vita di Frida Kahlo potete recarvi dal 18 giugno fino al 17 agosto 2016 presso lo studio Ar33 di Venezia per ammirare Frida a Venezia vista attraverso l'obiettivo di Matiz. Una mostra che raccoglie le immagini dell'artista ripresa dall'amico e fotografo Leo Matiz.
Consigli di lettura
Frida Kahlo, Abscondita, 2014.
Il diario intimo di Frida Kahlo. Autoritratto intimo,a cura di Sarah M. Lowe, Electa, 2014.
Viva la vitadi Pino Cacucci, Feltrinelli, 2014.
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