Combattere il terrorismo islamico parlando ai giovani. La proposta di Christiane Taubira
Christiane Taubira è l’ex Ministro della Giustizia francese del Governo Hollande, dimessasi il 26 gennaio 2016, per esprimere con forza la sua opposizione alla riforma contro il terrorismo che, tra le altre cose, prevedeva la perdita della cittadinanza francese per quanti condannati per terrorismo.
In un recente libro, appena pubblicato da Baldini & Castoldi, con il titolo di Il mondo cade a pezzi, noi siamo il mondo e nella traduzione di Ilaria Gaspari, spiega le ragioni alla base della sua decisione, fornendo una personale interpretazione del terrorismo islamico ed evidenziando quelli che, a suo dire, possono individuarsi come errori di interpretazione da parte dell’Occidente.
Il punto centrale di questo pamphlet è però anche un altro aspetto che ben coglie Gianni Riotta, nella sua prefazione: «Davanti alla sfida radicale del terrorismo fondamentalista, Christiane Taubira offre una scelta intellettuale altrettanto netta, il riesame delle radici nazionali francesi, rizoma di tante identità europee».
A colpire è pure il sottotitolo del libro, Le parole da raccontare ai giovani, perché fin da subito evidenzia l’intenzione di riconoscere la responsabilità che questa generazione ha di «illuminare il presente e offrire a quella successiva la possibilità di cogliere la profondità e le sfumature della propria epoca».
Ed è proprio da qui che prende le mosse anche il breve estratto del libro che vi proponiamo qui di seguito.
***
È un privilegio antico, risale all’origine dei tempi e si intreccia alla memoria del mondo. Ogni generazione può illuminare il presente e offrire a quella successiva la possibilità di cogliere la profondità e le sfumature della propria epoca. E quando i tempi sono incerti e turbolenti, soggetti a sconvolgimenti di difficile interpretazione, questo privilegio diventa un dovere.
Generazione? «Ogni generazione deve, in una relativa opacità, scoprire la propria missione, e compierla, oppure tradirla», affermava Frantz Fanon in un’epoca in cui i dannati della Terra ispiravano riflessioni, battaglie e duelli in loro difesa.
Non è mai successo che le analisi e i consigli degli adulti costituissero un breviario; e meno male, perché indicare la strada non significa tracciarla.
Tuttavia è un dovere far luce sul proprio tempo, coglierne le sfide, scoprire i contorni delle sue crepe, per consegnare alla generazione successiva una mappa comprensibile che la aiuti nelle sue scelte. Sta a noi rivelare i pericoli maggiori che il mondo d’oggi nasconde. E di certo il terrorismo, che riceve la forza propulsiva da un’area geoculturale perennemente instabile, costituisce il pericolo più imprevedibile e dal futuro incerto.
E nonostante questo…
Le nostre parole di adulti sono parole davvero misere. Così piatte, così sommarie. Così banali, solo frasi fatte! Queste parole gracchiano, esitano, balbettano, delirano e, alla fin fine, sono rivolte solo a noi stessi. Come possono arginare l’uragano che ci sommerge, deciso ad annientarci?
Barbari? Cultura? Civiltà? Tutto vero, ma forse insufficiente per cogliere quest’intelligenza dinamica, in continua trasformazione. Una forma d’intelligenza, proprio così. Demoniaca, assurda, che ha spezzato ogni legame con tutto quello che ci accomuna come esseri umani, ma pur sempre una forma di intelligenza, creativa e reattiva, cinicamente ingegnosa, ferocemente astuta, che non considera nulla al di fuori di se stessa, priva di ogni empatia – persino verso coloro che la servono – di ogni vincolo morale, di regole stabili, di modelli. Quest’intelligenza ipnotica che esalta le anime smarrite, enfatizza ogni follia distruttrice, si appropria di ogni crimine – persino quelli incompiuti – eleva i folli a martiri fanatici e crudeli, colpisce alla cieca e in maniera imprevedibile, in modo da seminare l’orrore e il panico.
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È un’intelligenza ottusa, non ama nessuna bellezza. Con lugubre frenesia fa radere al suolo Palmira, la città delle carovane. Con la stessa funerea esaltazione con cui altri, prima, avevano distrutto i Buddha di Bamiyan. Questa furia cieca contro la bellezza sembra quasi effetto di una droga. Coloro che lapidano le meraviglie di pietra, sono come drogati insensibili a tutto, pronti a massacrare la grazia e lo splendore della vita. Credono, così, di poter spegnere la vita incenerendo chi la celebra come gli pare, nelle sue ordinarie manifestazioni di gioia, di leggerezza, di vita sociale – nella redazione di un giornale, davanti a un bicchiere di vino, a un concerto, alla partita; tutti quelli che ridono delle cose, di se stessi, degli altri, di tutto e di niente, anche quando ridere è fuori luogo.
Che cosa opponiamo, noi, a quest’intelligenza mefistofelica? Qualche slogan! Parole che risuonano ovunque, prive ormai di ogni ragione.Oppure, come in queste righe, un fiume di parole che raccontano senza dubbio di più la nostra intelligenza raggelata e disorientata – rispetto a quanto siamo in grado di comprendere.
Imprigionare questo mostro in una serie di definizioni lapidarie serve solo a ratificare la nostra sconfitta. Dilungarsi a descriverlo, ricorrendo a spiegazioni ulteriori che diano conto della sua natura e delle sue abilità tentacolari, serve a chiudere il discorso su questo gran centro di comando – che non comanda nulla, ma suggerisce, ispira, incoraggia, avalla e approva. Perché bisogna convenirne: forse non sarà sottile, però la loro strategia è terribilmente scaltra. Una mentalità canagliesca, metodi da briganti, e i mezzi di uno Stato vero e proprio; controllo su territori e le loro ricchezze petrolifere, finanziamento con espedienti quali riscatti, tributi, estorsioni, e poi conti bancari, grandi capacità logistiche, forze militari. L’impressione che dà non è solo di un aggregato artigianale creativo e caparbio, perché l’esito è anche una padronanza dei mezzi d’informazione, delle tecniche di propaganda, degli artifici della comunicazione. Le procedure d’indottrinamento, sia verticali tramite le arringhe video di predicatori carismatici, sia orizzontali, con la creazione di reti fra persone lontane, arrivano a coinvolgere nell’ideazione di uno stesso progetto o in una stessa spedizione omicida, giovani agli antipodi per percorsi di vita, ambienti familiari e sociali di provenienza, e persino per le loro credenze, come dimostra l’aumento notevole dei nuovi convertiti. Un terrore di massa costringe le popolazioni e rimanere confinate sul posto, rendendole quasi muraglie umane, oppure le spinge a un esodo continuo in tutte le direzioni del mondo.
Così regnano, dall’alto; non vale nemmeno la pena di parlarne.
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Poi ci sono quelli che reclutano, formano, organizzano, controllano. Freddamente. Forse animati da qualche ideologia nichilista, in flagrante contraddizione con l’implicito assenso a un assoluto religioso… ma forse è proprio questo il sotterfugio, lo stratagemma, l’astuzia, la trappola per uccelli.Pianificano, fra fischi e sghignazzi, la morte dei pennuti. Bisogna ammettere che di certo non escludono la propria, di morte – mentre i capi supremi al vertice, trogloditi travestiti da califfo e con una corte anacronistica, dedicano ogni cura alla tutela della loro vita, e a godersi beni materiali e piaceri terreni. Non sarebbe di conforto a nessuno affermare che questi reclutatori sono dei selvaggi incolti, istintivi e sanguinari. Sono invece istruiti, forti di un certo smalto sociale, hanno conoscenza accurata dei territori, e una grande familiarità con i codici culturali e sociali. Sono della stessa tempra dei signori della guerra nel mondo del narcotraffico; non vivono da boss rintanati, ma da veri capi militari con lo stesso coraggio bellicoso, lo stesso sangue freddo e agilità mentale, lo stesso narcisismo privo di esitazioni. L’unica grande differenza consiste nel rapporto col denaro: per loro non è altro che un mezzo per rifornirsi di strumenti di morte. Li accomuna questa impermeabilità assoluta alla soggettività.
Così infieriscono, sui loro sottoposti. Non vale nemmeno la pena…
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Ora, però, comincia l’essenziale. Perché dobbiamo rifiutarci, nonostante le intimidazioni, di capitolare intellettualmente. Bisogna, al contrario, rimanere determinati a vincere la battaglia del reclutamento, prosciugando quest’esercito sterminato che si arruola in ogni continente, sviando – nel senso etimologico della parola – questi soldati che giurano fedeltà a lontani zombi malefici e spandono dappertutto morte, sbigottimento, angoscia.
Sì, bisogna capire, per prevenire ma anche per ricondurre il mondo a un senso. Le grida di questi tiranni del pensiero smettano di infettare le nostre menti. Sennò, per colpa di una nostra omissione, lasceremmo campo libero a nuove frustrazioni, gonfie di macabra esaltazione; annaffieremmo la terra dove crescono questi frutti polemici della passione; spingeremmo verso la prossima genera zione le conseguenze di rancori che continueranno a spezzare vite innocenti.
Sì, nel Paese di Descartes invochiamo la ragione. Cogito ergo sum. Ciascuno è responsabile delle proprie azioni, e ne deve rispondere. Non rinunciamo, però, a dissezionare la meccanica di questo intruppamento settario, né a rivelare le insoddisfazioni che lavorano al suo servizio. Questo non attenua per niente la gravità dei crimini commessi. E quali che siano i clamori – ipocriti o isterici – che solleva, questa decisione di esplorare, di comprendere e di vincere è incrollabile.
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Sì, nel Paese di Montaigne, chiediamoci: che cosa so? Scegliamo di non distogliere lo sguardo, di avere il coraggio di affrontare quel che risvegliano, ancora una volta, le smanie guerrafondaie delle religioni quando vengono strumentalizzate, di smontare i meccanismi sui cui quelle smanie fondano la loro opera di sterminio.
Sì, nel Paese di La Boétie, cerchiamo qual è il limo di cui si nutre questo consenso verso la supremazia di una fi gura isolata, lontana, senza virtù ma a cui si garantisce obbedienza cieca, il limo su cui riposa questa schiavitù volontaria che conduce assassini e kamikaze a rendere tanto scuri i nostri giorni, i loro giorni.
Sì, nel paese di Simone Weil, rifiutiamoci di navigare sulla superficie delle cose. Dobbiamo fendere i flutti e avventurarci nelle acque tumultuose, fi no al centro del mulinello; dobbiamo entrarci, misurarlo, raggiungere l’occhio del ciclone per conoscerne l’intensità; dobbiamo far emergere le contraddizioni, costringerle alla resa, scandagliare i vuoti che servono da rifugi a queste devianze sanguinarie.
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