Cliché narrativi nei romanzi rosa e nei thriller
Cosa sia un cliché, lo sappiamo più o meno tutti, anche se siamo così abituati a utilizzare certe espressioni nel linguaggio corrente da non renderci nemmeno più conto della loro ripetitività e banalità. Corriamo a perdifiato, abbiamo una fame da lupi, siamo colpiti da un delitto efferato o da cifre da capogiro, mentre aspettiamo di uscire dal tunnel della crisi.
Gran parte di questi modi di dire possono aver colpito i lettori la prima volta che sono stati impiegati in un libro o in un articolo di giornale: stampa e pubblicità sono, del resto, i settori in cui i cliché sono più diffusi. Il loro abuso è però uno dei fattori che hanno determinato la banalizzazione dell’italiano corrente, che risulta molto impoverito rispetto a quello in uso solo qualche decennio fa. La stessa televisione, che ha avuto l’indubbio merito, ai suoi esordi, di dare un forte impulso all’abbandono delle parlate locali in favore della nascita di un vero linguaggio nazionale, ha anche il demerito di aver poi abbassato di molto il livello di questo linguaggio.
Tuttavia, se possiamo non prendercela troppo per l’uso e l’abuso dei cliché nella lingua corrente, diventiamo un po’ più esigenti nei confronti dell’italiano scritto, soprattutto di quello letterario, e dobbiamo ammettere che la letteratura di genere tende ad abusare dei cliché in modo quasi fastidioso.
Pensiamo ai romanzi rosa: potremmo dire che nascono da una serie di cliché quasi obbligati, in quanto una storia d’amore prevede un lui, una lei, un incontro, qualche peripezia destinata a movimentare la vicenda, un immancabile lieto fine, e fin qui siamo tutti d’accordo. Ma è davvero necessario che lui sia sempre bellissimo, ricchissimo, potentissimo, con un passato oscuro e tormentato, mentre lei, di solito, è mediamente carina, da poco piantata da un fidanzato fedifrago, consolata da un’amica del cuore e in bilico sui tacchi dodici anche quando scende a prendere il latte?
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Non sarebbe interessante scoprire che può nascere un amore travolgente anche tra un maschio non proprio bello, ma tanto simpatico, e una ragazza che preferisce andarsene in giro in ballerine? E che un uomo e una donna possono incontrarsi senza che il loro primo incrocio di sguardi susciti reazioni a dir poco imbarazzanti, tra seni palpitanti, capezzoli frementi e respiri affannosi anche se i due non si sono nemmeno sfiorati? Certe descrizioni suscitano ilarità più che scatenare emozioni, soprattutto se avvengono usando termini ormai logorati e impoveriti dal loro abuso.
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Nell’ultimo romanzo rosa che ho letto, l’autrice presenta il protagonista maschile come fornito di un “sorriso illegale”, definizione in sé insolita, se però non fosse ripetuta in pratica in ogni pagina del libro, tanto da determinare presto nel lettore una reazione di fastidio.
Per non parlare del tormentone dei drink, di cui nei romanzi di genere viene fatto un uso “narrativo” al di là di ogni verosimiglianza: il gesto di bere qualcosa serve spesso a riempire tempi morti nella storia, ma questo deve restare entro i limiti della verosimiglianza.
Se leggete un qualunque romanzo sentimentale contemporaneo e prendete nota di tutte le bevande alcoliche che i personaggi ingurgitano nell’arco di una giornata, scoprirete che nemmeno uno di loro potrebbe evitare di essere presto costretto a rivolgersi agli Alcolisti Anonimi, col rischio concreto di morire prematuramente di cirrosi epatica.
Gli autori (ma anche i loro editor!) non sembrano avere ben chiaro che una ragazza giovane, spesso descritta con un fisico esile che non va oltre la taglia quarantadue, non potrebbe mai ingurgitare un aperitivo alcolico prima di un pranzo veloce e un paio di calici di vino nel tardo pomeriggio, per poi passare a una cena al ristorante innaffiata da altro vino e a un paio di superalcolici per concludere la serata, senza rischiare il coma etilico.
Lo stesso capita nei romanzi thriller/noir. L’investigatore che conduce le indagini è, nel novanta per cento dei casi, scapolo o divorziato, fa una vita solitaria e si veste in modo trasandato, sembra che non mangi – se lo fa, di solito ingurgita schifezze – e non dorma, ma di sicuro beve come una spugna, spesso fuma in maniera smodata e per contrastare il troppo alcool ingurgita anche una quantità impressionante di caffè. Però è lucidissimo, conduce la sua indagine in modo perfetto e arriva a individuare il colpevole anche dopo essersi tracannato una bottiglia di whisky a sera. Possiamo davvero credergli?
Dev’essere per questo, forse, che uno dei miei investigatori preferiti mangia focaccia ligure e beve Lemonsoda…
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