Ciò che da inenarrabile diviene presto placida consuetudine
Quando oggi tutti si legittima.
Volevo i pantaloni è roba vecchia di un secolo.
Non lo dico soltanto in senso letterale.
Prima di iniziare permettetemi, però, una premessa (per chi, probabilmente più giovane, non ne avesse mai sentito parlare): quella era la storia, peraltro palesemente autobiografica, di una adolescente costretta nelle restrizioni mentali e culturali della Sicilia di fine anni Ottanta, con tutti i suoi tentativi per venirne fuori.
No, tranquilli, non state leggendo un post su come a una minorenne possano star strette le proprie origini e faccia di tutto, ma proprio di tutto, per ottenere una sorta di riscatto. Cioè, lo diventerà nel corso delle prossime righe, ma per il momento vorrei limitarmi a farvi osservare quanto è lontano questo libro da oggi, dalla sensibilità di oggi.
Per farlo, mi rimando al titolo, perché la giovane protagonista erano proprio i pantaloni che voleva indossare, non le minigonne di jeans, non i body di pizzo a vista, non l’ombretto viola e il ciuffo tenuto sollevato da chili di lacca come noialtre che volevamo semplicemente sposare Simon Le Bon. No, prima di tutto, sopra a ogni cosa, lei voleva-desiderava-smaniava indossare i pantaloni, tale e quale gli uomini. Peccato che a casa sua, i pantaloni, le donne non li potessero indossare, a meno di essere (e passatemi il termine ma, all’epoca, non andavano ancora di moda certi ingentilismi) dicevo, a meno di essere delle puttane.
Ecco il punto: arriverà il giorno, nemmeno troppo lontano, in cui diremo ai nostri figli che siamo così bolliti da ricordarci di aver letto un libro che narrava di quando un semplice, banalissimo paio di pantaloni rappresentava il punto di non ritorno per l’onorabilità di una giovane donna. E di quanto quella storia ci avesse sconvolti, e di che putiferio scoppiò in tutta Italia. Fu uno scandalo. Noialtre, quelle di Simon Le Bon, ricorderemo che eravamo costrette a leggere il libro di nascosto dai grandi, abbarbicate sulle panchine dei giardinetti nemmeno ci facessimo uno spinello, tanto intorno a quella storia aleggiava un’aura di morbosità. (Che poi, stringi stringi, la protagonista si era limitata a dare un semplice bacio al ragazzo). Al che loro, i nostri figli, ci guarderanno con aria sconcertata come fossimo una specie di reperto archeologico. Eppure era solo vent’anni anni fa, ma sembra ne siano passati duecento. Un altro mondo.
Oggi, Volevo i pantaloni non lo legge più nessuno. Al limite c’è qualche insegnante che lo consiglia agli studenti come lettura per le vacanze.
Melissa è anche lei adolescente. È anche lei siciliana. È anche lei insoddisfatta della sua vita. Scrive un libro (d’altro canto chi è che non lo scrive). Ma a differenza della crescente baraonda di imbrattacarte, lei riesce a diventare il caso letterario degli anni Duemila, eguagliando il successo che Lara Cardella aveva ottenuto negli anni Ottanta, se non addirittura surclassandolo.
Come ci è riuscita?
Come si fa a far emergere dal magma letterario la propria storiella quando in giro c’è un sovraffollamento di scribacchini che aspirano al boom?
Bisogna avere una storia forte. Ma di storie forti è pieno il mondo e non tutte si trasformano in un romanzo e ancora di meno diventano il libro più venduto dell’anno. Quindi non basta, il segreto sta tutto nello spingere oltre quello cui siamo abituati ad ascoltare. Si alza il sipario al mai visto prima, un tuffo sfrontato nella mancanza di limiti con l’unica ciclopica conseguenza che si modificherà per sempre, azzerandola ancora una volta, la percezione della distinzione che abbiamo tra ciò che è ordinario leggere, ascoltare, vedere ma più di tutto giustificare, e quello che non lo è ma che, fidatevi, lo diventerà presto.
Perché Melissa, come prima di lei la Cardella, ha sfondato il muro dell’inenarrabile, facendo dello scandalo una vicenda quotidiana e, come con ogni vicenda quotidiana che si rispetti, si finisce con l’abituarsi. Da allora mi risulta aver scritto un paio di altri romanzi ma ormai dopo tanto can can non se la fila più nessuno nemmeno lei.
Era il 2003.
Sono passati otto anni, oggi leggo altre storie, sempre di giovani ragazze, ma non le leggo sui libri bensì sulle pagine dei giornali.
Il passo dall’abitudine alla legittimazione è troppo breve per non fermarsi a riflettere.
E a questo punto mi fermo per davvero.
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