“Ci rivediamo lassù” – Pierre Lemaitre a Milano
Pierre Lemaitre, scrittore e sceneggiatore francese, autore di diversi romanzi noir di grande successo, si è imposto all’ultima edizione del Premio Goncourt, il top della letteratura francese, con Ci rivediamo lassù, romanzo storico non privo di deroghe rispetto alle regole del genere, edito da Mondadori, nella traduzione di S. Ricciardi.
Le prime pagine immergono subito il lettore in una trincea francese negli ultimi giorni della prima guerra mondiale, quando il chiaro avvicinarsi dell’armistizio spinge il tenente Pradelle a lanciare i suoi uomini in un’azione inutile e sconsiderata, allo scopo di guadagnarsi un po’ di gloria personale prima che arrivi l’ordine di cessare il fuoco. A farne le spese saranno due soldati, Albert e Edouard, che rischiano entrambi di morire nell’azione. Ma se Albert se la cava senza danni, Edouard ne esce gravemente colpito e sfigurato per sempre. Tra i due nasce uno stretto rapporto d’amicizia: Albert assiste Edouard nel suo lento e faticoso ritorno a una vita che, per vari motivi, non potrà mai più essere come quella vissuta prima della guerra, mentre il destino li porta a incrociare ancora la strada di Pradelle, in un crescendo di emozioni fino a un liberatorio finale.
Tema principale del libro è il difficile reinserimento dei reduci nella società francese dell’epoca, che dopo aver mandato i propri giovani a morire al fronte sembra non sapere come gestire i sopravvissuti.
A Milano per presentare il romanzo, Pierre Lemaitre ha incontrato, oltre noi di Sul Romanzo, anche gli inviati dei blog Finzioni, Critica Letteraria, Libreriamo e Tazzina di caffè, per una chiacchierata molto cordiale.
Comincio da una curiosità personale: non riesco a immaginarmi la faccia sfigurata di Edouard per com’è descritta dopo che è stato colpito.
Vi posso dire che sto collaborando con un disegnatore per realizzare una versione a fumetti del romanzo, e il disegnatore in principio mi ha posto la stessa domanda. Fa parte delle “cose impossibili” presenti nel libro, perché il mio lavoro si basa sull’illusione romanzesca. Si possono inserire in un romanzo elementi non realistici, ma se storia e personaggi sono buoni il lettore ne viene convinto e va avanti, sospendendo un giudizio critico. Il mio mestiere è fabbricare emozioni: più il lettore prova emozioni diverse, più il libro raggiunge il suo scopo. La vita non basta se non interviene la letteratura a dare emozioni.
In Ci rivediamo lassù c’è un narratore onnisciente che interviene spesso mostrando uno sguardo ironico, a volte anche sarcastico, sulle vicende. In generale, come si pone lei come narratore?
Le intrusioni regolari del narratore sono il mio modo di essere in rapporto con il lettore. Trovo che uno dei problemi della scrittura sia il fatto che l’autore non scrive nello stesso tempo e luogo del lettore: ho scritto questo romanzo a Parigi nel 2012, mentre voi lo leggete oggi a Milano. La distanza è nemica dell’emozione, perciò cerco di ridurla e illudere il lettore che gli sto raccontando la storia come se fossimo fisicamente insieme. Ho voluto anche leggere personalmente l’audiolibro ricavato dal romanzo proprio per avere un rapporto più stretto con chi avrebbe seguito la storia.
Nel romanzo, le capacità artistiche di Edouard sono usate per architettare una truffa attorno all’edificazione dei monumenti ai caduti della guerra. Ma il potere catartico dell’arte non può redimere i truffatori?
In realtà, non si tratta di arte pura, ma di monumenti funebri progettati in modo industriale. Il rapporto con l’arte riguarda piuttosto Edouard, che non riesce più a riconoscere il suo viso devastato ed è un artista che non può più rappresentarsi.
In questo libro, le donne, ma soprattutto le madri, sono assenti come quella di Edouard che è già morta, oppure rompiscatole come quella di Albert, o inesistenti come quella di Louise. Da dove viene questa visione negativa del ruolo materno?
Questa è una storia maschile, in cui il mio scopo non era quello di piacere alle donne, perciò ho scelto di non inserire a forza delle figure femminili gradevoli. Non so se ci siano buone o cattive madri, ma quelle del romanzo sono più che altro traumatizzate dalla guerra. Ammetto, però, che raramente metto nei miei libri personaggi materni positivi, e che continuerò anche in futuro questa mia psicoanalisi personale…
Il libro si apre con l’immagine molto forte di Albert che rischia di morire sepolto vivo sotto una valanga di terra, da cui però uscirà in un certo senso trasfigurato, così come alla fine del romanzo i protagonisti rinascono perché completamente cambiati. È stata quest’immagine iniziale della terra rigeneratrice a influenzare tutto il resto della storia?
In realtà, al romanziere sfuggono sempre delle cose, per quanto cerchi di dominare la sua storia. Io non pensavo all’importanza della terra, ma quando il disegnatore mi ha mostrato le prime tavole per la riduzione a fumetti, ho notato che il colore dominante era l’ocra: aveva messo terra dappertutto!
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Oggi personaggio del romanzo suscita nel lettore reazioni doppie: pena e rabbia, indifferenza e simpatia, odio e fascino. Anche per lei esiste il tema dell’ambivalenza?
Certo, e fa parte delle mie origini letterarie. Vengo da una letteratura segnata da Hugo e credo nelle virtù dei grandi romanzi semplificatori, la cui forza sta nel passare da un’emozione all’altra. I romanzi devono essere una cassa di risonanza delle emozioni, che devono essere ambivalenti come nella vita: ci vogliono forti contrasti per suscitare forti emozioni.
Qual è il suo rapporto con i finali dei romanzi?
Certi romanzi hanno per me un post-parto doloroso, e questo in particolare è stato dolorosissimo. Avevo una grande difficoltà a separarmi dai miei personaggi, tanto che mentre registravo l’audiolibro, pensavo che stavo leggendo il romanzo per l’ultima volta in vita mia, perché non lo riaprirò più. Leggevo e mi congedavo dai miei personaggi. Mi sono persino rifiutato di ripetere alcune registrazioni che, secondo i tecnici, non erano venute alla perfezione.
Da dove ha preso la psicologia particolare di questi personaggi?
Non credo assolutamente nell’ispirazione che viene dal cielo. Scrivere è un lavoro e io sono un artigiano laborioso: provo, cerco. Del primo capitolo ho steso 21 versioni e ho pubblicato la ventiduesima. Prima di tutto penso a cosa voglio far dire a un personaggio e a quale sia la sua funzione pratica nella storia. Il lettore, spesso, immagina un autore ispirato, ma io sono un lavoratore: talento e buona volontà non bastano, ci vuole prima di tutto la tecnica. Bisogna saper costruire un dialogo, inventare una falsa pista, piazzare una sorpresa al momento giusto. Il lettore deve essere commosso, adirarsi contro un personaggio, rimanere colpito: il mio mestiere è di creare emozioni.
A un certo punto, Edouard inizia a costruire e a utilizzare delle maschere per coprirsi il volto sfigurato. Da dove ha preso quest’idea?
Gli ho messo delle maschere perché era faticoso trovarmelo davanti così conciato per otto ore al giorno mentre scrivevo… Edouard gioca con le maschere, e non a caso viene aiutato a realizzarle da Louise che è una bambina. Sono stati entrambi traumatizzati dalla guerra, e cercano di uscirne giocando. Per ispirarmi sono andato più volte al Museo delle Arti Primitive, a Parigi, dove ho fotografato una quantità di maschere.
Comico e tragico si mescolano spesso nel romanzo. Che importanza ha accostarli in letteratura? E perché ha scelto proprio la prima guerra mondiale come scenario?
In principio pensavo di fare alternare a Edouard una maschera da commedia e una da tragedia, ma mi sembrava una soluzione troppo netta, e ho modificato quel capitolo. La tragedia ispira certamente il suo rapporto col padre. Quanto alla guerra, avendo scritto romanzi polizieschi, che parlano di crimini, penso che la guerra sia il crimine per eccellenza, perciò era una scelta naturale.
La Parigi degli anni Venti che appare nel libro è molto lontana da quella affascinante di scrittori come Hemingway. Erano così diverse le varie facce di Parigi all’epoca?
Io non ho scritto un romanzo storico perché diffido della documentazione. Io lavoro con l’illusione e voglio che il lettore veda quello che voglio io: non m’interessa che sia esatto, ma che appaia vero. Uno storico comunque non troverebbe anacronismi, anche se ho inventato i nomi delle strade e qualcuno mi ha fatto notare che sono stato impreciso nel descrivere le granate all’inizio. Del resto, se avessi scritto un vero romanzo storico, avrei dovuto, ad esempio, parlare dell’epidemia di Spagnola, che in quegli anni ha causato più morti della guerra, ed io invece non la nomino neppure. Sì, la mia Parigi è all’opposto di quella di Hemingway, ma se l’avessi descritta come lui, sarei caduto nei cliché e sarei stato prevedibile, mentre io cerco di essere sempre imprevedibile.
I protagonisti s’incontrano per caso. Quanto conta la casualità nella creazione dei personaggi e per innescare l’ispirazione narrativa?
Ripeto che l’ispirazione conta poco, è tutta una questione di tecnica. Cerco di scegliere il meglio per quello che voglio dire, e quindi un incontro nasce solo in funzione dell’emozione che voglio comunicare. Il personaggio è solo uno strumento per suscitare nel lettore delle emozioni. Il valore universale della letteratura sta nella sua facoltà di migliorare la nostra conoscenza del mondo grazie alle emozioni che provoca in noi.
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