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Chissenefrega oggi dei matti? A quarant’anni dalla legge Basaglia

Chissenefrega oggi dei matti? A quarant’anni dalla legge BasagliaRicorrono domani i quarant’anni dalla legge Basaglia (la n. 180 del 13 maggio 1978) che ha rappresentato un punto di svolta nella legislazione italiana in materia di “malati di mente”.

Un punto di svolta che vale la pena approfondire, riportando l’attenzione anche su testi che, partendo da fatti privati, colgono l’occasione per richiamare la nostra attenzione su aspetti sociali connessi alla malattia mentale.

In particolare parliamo del volume Chissenefrega dei matti. Il caos e lo strazio della salute mentale del Premio Pulitzer Ron Powers ed edito in Italia da Erickson.

Partendo dal racconto della morte del figlio minore Kevin, impiccatosi nel seminterrato di casa, una settimana prima di compiere ventun anni, Powers dà inizio a un viaggio intenso e a tratti bruciante nel mondo della pazzia, analizzato casi concreti ma anche diverse posizioni scientifiche così come le differenti situazioni in vari Paesi del mondo. Un libro che aiuta a mettere a confronto il dolore di chi ha “subito” la malattia di una persona cara con l’approccio più distaccato di ricercatori, medici, farmacologi, scienziati… ponendo al centro un dolore che si fa sempre più crudo e duro.

 

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Qui di seguito, su gentile concessione dell’editore, pubblichiamo l’introduzione all’edizione italiana, firmata dallo psichiatra Peppe Dell’Acqua, già direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste

Chissenefrega oggi dei matti? A quarant’anni dalla legge Basaglia

 

La legge 180, che compie oggi 40 anni, segna in Italia la fine di una legislazione speciale e la restituzione di diritti e di soggettività.

L’internato, il malato di mente diventa un cittadino cui lo Stato deve garantire, e rendere esigibile, i suoi fondamentali diritti costituzionali, una persona la cui dignità deve assumere un valore assoluto, un soggetto singolare che pretende ascolto, cure, attenzioni altrettanto singolari. Da qui il cammino incerto e irto di interrogazioni, di rischi, di lentezze insopportabili che nel nostro Paese abbiamo avuto la fortuna di affrontare. Il rifiuto delle certezze della psichiatria pretenderà un agire critico, vigile, partigiano: un pensare strategico, un cammino aspro e i conflitti che continuiamo ad affrontare e che mai ci abbandoneranno.

E le entusiasmanti scoperte, sempre più numerose, che le persone con l’esperienza del disturbo mentale continuano a fare mentre scoprono che farcela è possibile.

I malati di mente, gli internati, i senza diritto decretata la fine dei manicomi, possono pretendere di farcela. I bisogni emergono per quello che sono, non più col filtro della malattia.

“Messa tra parentesi la malattia”, si scopriva la possibilità di vedere le persone e la loro storia. Persone che faticosamente guadagnano margini più ampi di libertà. La libertà intesa come possibilità di desiderare, di scoprire e manifestare i propri sentimenti, di stare nelle relazioni. Di rientrare nel contratto sociale, di riappropriarsi della cittadinanza come condizione irrinunciabile per affrontare la fatica della rimonta sempre possibile.

Come quella sera nel Vermont, in un altro luogo e in un altro tempo, gli uomini in camicie di jeans e flanella, con la barba non fatta, e le donne in gonne in denim, con i capelli in disordine, entrano sulla scena con la loro singolarità e pretendono di prendere in mano la loro vita.

La legge 180 non è altro che questo. E questo è quanto è accaduto in Italia. Da allora nel nostro Paese non è stato più possibile ignorare i malati di mente.

Da quel momento il campo del lavoro terapeutico è davvero cambiato.

Esistono associazioni di persone che hanno vissuto l’esperienza del disturbo mentale, che rivendicano la propria differenza, raccontano le loro svolte, vogliono vivere la loro vita malgrado la malattia; sono presenti sulla scena associazioni di familiari che fino all’altro ieri erano condannati alla vergogna, all’isolamento, al silenzio, a sentirsi colpevoli.

Molte storie finalmente si possono raccontare. Storie di persone, sempre più numerose, che affrontano la severità della loro malattia senza mai subire restrizioni e mortificazioni. Persone che hanno potuto attraversare Centri di salute mentale orientati alla guarigione, luoghi capaci di accogliere e accompagnare nel percorso di ripresa fino a trovare la propria strada. Alcune esperienze esemplari e pratiche diffuse in tutto il Paese, hanno dimostrato che è possibile non fare danni e costruire consapevolezza e nuove opportunità di partecipazione per le persone, i familiari, i cittadini coinvolti.

Le esperienze di questi anni hanno mostrato quanto la cura della malattia, si mette alla prova proprio nella dimensione dei contesti di vita, nelle relazioni, nei conflitti. Il lavoro che bisogna fare per incontrare le persone si situa proprio in quello spazio aspro e tesissimo tra i curatori e i luoghi reali di vita.

Se si pensa alla grande esplosione italiana della cooperazione sociale, delle associazioni, della partecipazione di tanti cittadini, si scoprono le possibilità (non sempre e non dovunque) cui possono accedere le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale per riprendere un ruolo sociale e un posto in famiglia, per avere accesso alla formazione, per entrare nel contratto. È possibile oggi incontrare uomini e donne che lavorano, che guidano l’automobile, che hanno figli, che vivono nella loro famiglia, che si mettono in gioco quotidianamente nella normalità e nella fatica delle relazioni.

E, tuttavia, pratiche che annientano i più elementari diritti persistono.

Chissenefrega oggi dei matti? A quarant’anni dalla legge Basaglia

In Italia, dove la legge 180 permette di vedere e di denunciare, nella ricca Europa nel silenzio e la disattenzione dei governi, nei Paesi ricchi come nei Paesi poveri. Tutti affermano, per esempio, che bisogna abolire la contenzione e l’isolamento, ma che sono costretti, dicono, loro malgrado, a calpestare la dignità della persona e l’inviolabilità del suo corpo a causa dell’incontenibilità dei sintomi aggressivi e violenti, delle carenze organizzative, della povertà delle risorse. Quasi che un gesto così prepotente, aggressivo e violento oltre che dannoso e dalle conseguenze incancellabili, si possa giustificare, ed essere infine accettato come un routinario atto medico.

Che cosa si fa per permettere alle persone di vivere veramente le possibilità che ora sono alla loro portata?

Si fa poco. Questo libro che Powers non avrebbe mai voluto scrivere è rivelatore, fin dal titolo. Le persone rischiano sempre di essere rinchiuse dentro mura ancora più spesse di quelle del manicomio. Sono le mura costruite dalla forza del modello medico e dal ritorno prepotente delle psichiatrie che vedono solo la malattia, che fondano la loro credibilità sulla promessa della sicurezza e dell’ordine, sull’industria del farmaco, su fondamenti disciplinari quanto mai incerti e controversi.

Mentre confusione, dolore e incertezza emergono nella vita della famiglia, il racconto di Ron Powers si fa potente e affascinante e incrocia l’esposizione ampia della storia delle istituzioni, della nascita dei manicomi, delle false profezie delle psichiatrie. È una ricchezza ulteriore. Chi vive l’esperienza della malattia non può non conoscere il linguaggio della psichiatria. Non può rimanere senza parole.

 

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Nelle prime pagine racconta di un sogno ricorrente in cui immagina il suo equilibrio mentale appoggiato su una membrana sottilissima e fragile che facilmente si strappa aprendo sotto di lui l’abisso della follia, dove altri precipitano. “Non è tanto l’impossibilità a frenare la caduta che è spaventosa — dice — ma è orribile avvertire, intorno, il mondo indifferente”. Nella caduta incontra i suoi amatissimi figli. Il sogno ricorrente per dire dell’urgenza ossessiva che si impadronisce di lui: scrivere per persuadere il mondo, in qualche modo, a prestare attenzione.

Deve affrontare l’inerzia che assale una famiglia quando si trova di fronte a un rischio cos. imminente di disgregazione. Riconoscere la malattia dai sintomi in una persona cara è un’impresa tra le più sgradevoli. Bisogna superare finzioni, svelare segreti, rompere raffinate risorse inventate per sopravvivere alla tragedia. Occorre coltivare l’amore come scudo contro l’assalto del dolore.

La fatica che fanno Honoree e Ron trova un senso che va oltre i confini delle mura di casa: armare altre famiglie con la coscienza dell’urgenza e con la rassicurazione della possibilità.

Tutti sanno che si può fare. Il problema è che nessuno sembra interessato a conoscere, veramente, come si può curare in un altro modo. Che nessuno è più disposto a credere che un altro mondo è possibile. Molte famiglie che hanno lottato con la malattia mentale, dopo aver vissuto la loro parte di oscurità, trovano alla fine una specie di speranza e di forza. Questo libro coraggioso — che si può leggere come un atto di iniziazione — trasmette forza, speranza e conoscenze, e chiede a noi tutti di uscire dall’indifferenza e diventare complici di tutti coloro che lottano.

 

©Testo tratto dalla presentazione di Peppe Dell’Acqua, del libro “Chissenefrega dei matti” di Ron Powers

Edizioni Centro Studi Erickson


La prima foto è tratta da qui.

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