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Chiara Valerio e il coraggio di non essere dei manieristi (prima parte)

Chiara Valerio, La gioia piccola d'esser quasi salviLa prima domanda che vorrei porre a Chiara Valerio è sul ritmo e l’armonia. Temi che ho ritrovato molto nei suoi scritti. Come se fossero una sottotraccia da cui non si poteva fuggire, come il sentiero di mattoni gialli del Mago di Oz. Leggendo, anzi rileggendo La gioia piccola di essere quasi salvi, avevo in testa un ritmo che si rincorreva in tutte le frasi spezzate, nell’attenzione all’aggettivo, nella capacità di ricomprendere nel negativo di un gesto un intero personaggio. Ecco, leggevo questo libro e avevo in testa Bach. La sua meticolosità per raggiungere un proprio personale disegno che nessuno avrebbe mai potuto sovvertire. Bach odiava i virtuosismi dei musicisti che tendevano a snaturare le scelte dei compositori, allora cercava di creare un sistema talmente articolato da rendere difficile questa pratica. Qual è il rapporto di Chiara Valerio con i virtuosismi nella scrittura? Le faccio questa domanda nel suo duplice ruolo di scrittrice e di editor. Ce ne sono troppi o troppo pochi nei romanzi contemporanei?
Ginevra Bompiani, con la quale lavoro da qualche anno a Nottetempo Edizioni, mi ha detto, quando le ho consegnato la prima stesura de La gioia piccola di essere quasi salvi, che da giovani non si ha uno stile, ma una maniera. Ed è una cosa che ho capito col tempo. Perché ho sempre amato i manieristi, e quindi le stranezze linguistiche, grammaticali, quelle spie che dichiarano a chi legge anche le intenzioni (meglio, le pretese intenzioni) di teoria della letteratura, mi hanno sempre rallegrato molto. Poi, l’allegria è finita. È successo a un certo punto. Ho cominciato a leggere un mio racconto diciottenne e mi sono detta: «Ma perché cavolo non racconto semplicemente questa storia?»
Come se quel manierismo (meglio, quel preteso manierismo, quella ingenua maniera) mi fosse sembrato, d’un tratto, una mancanza di coraggio narrativo. Quindi la strada, che credo si srotoli davanti a chi scrive come un orizzonte, indefinito e certo al tempo stesso, è trasformare quelle maniere (le mie sono soprattutto ossessioni di punteggiatura e di tempi verbali) in uno stile, o almeno fare sì che il testo sia contemporaneamente la storia che si racconta, la struttura linguistica che si sceglie per raccontarla, e il tempo in cui i fatti e le intenzioni narrate accadono. Da editor – che nella mia accezione è uno che legge molto bene con le orecchie per cogliere e accordare i ritmi linguistici degli altri – diffido molto delle maniere, ma perché ci rivedo certe mie vigliaccherie. Credo sia questo, ma le ho risposto velocemente.

L’essenzialità necessaria delle sue metafore è tale che dopo averle scoperte il lettore penserà che sì, quello e nessun altro dovrebbe essere il modo per descrivere uno specifico stato d’animo. Come nascono allora le sue metafore? E quanto sono importanti in un testo narrativo?
Sono importanti se sono poche, sono poche se sono esatte. Le metafore di solito sono scorciatoie; non aprono, chiudono. Non amo molto le metafore, ma le rispetto, e spero che questo sentimento sia reciproco.

Demone della pagina bianca o della pagina nera? Qual è il più temuto da Chiara Valerio e perché? E quale predilige nei testi che legge come editor?
Scrivere è una cosa che si fa mentre la si fa, o almeno fino a oggi, per me, è sempre stato così. Quindi nessun demone booleano o manicheo, come preferisce, è mai venuto a visitarmi. Ne vengono altri, più sfumati, demoni sonori, demoni morali, demoni di chi ha barattato una dimensione di curiosità e conoscenza per una dimensione etica, demoni di sguardo, quelli che trasformano il vedere tutto nel vedere troppo e poi, certe volte, nel non vedere affatto. In ogni modo, avrei più timore della pagina bianca, ma questo perché, nella vita, preferisco gli eccessivi e i prodighi ai misurati e agli avari. Scrivo cancellando, e leggo cancellando. Preferisco le pagine nere.

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Chiara ValerioIn una sua intervista ha detto che usa i libri come delle medicine. Un amico ha un problema? Bene, ecco Chiara arrivare con il libro giusto, la cui lettura risolverà il problema o per lo meno aiuterà l’amico in questione a risolverlo. Usa i libri anche come “golosità emozionali”, adeguando le sue scelte in funzione dello stato d’animo che ha o che vorrebbe avere? Se sì, quale libro ha scelto in questo periodo? E quali sono i suoi salvavita?
Al di qua o al di là dell’umano di Ludovica Koch, Lo scimmiotto di Wu Ch’eng-en, The human use of human beings di Norbert Wiener, Dalla parte di Swann di Marcel Proust, i diari di Virginia Woolf e i saggi e le lettere (ad apertura di pagina), Quaderno IV di Simone Weil… Ne ho moltissimi, non so mai con che libro voglio morire sul comodino. L’ultimo libro che mi ha salvato la vita la scorsa settimana è stato Il libro delle meraviglie e tutti i frammenti di Flegonte di Tralle, appena uscito per Einaudi a cura di Tommaso Braccini e Massimo Scorsone. Mi sono divertita moltissimo, ne ho letto brani interi ad alta voce ai miei amici più cari e alle mie sorelle, e alle persone con cui ero in fila alle poste. Deve leggerlo. E poi Fosca di Tarchetti. Non lo avevo mai letto, un romanzo italiano di fine Ottocento. Ci stavo lavorando in radio e, ascoltandolo in cuffia, mi sentivo come una che sta seguendo una intercettazione o sta ascoltando con l’orecchio appiccicato al muro… I libri mi salvano la vita continuamente, dove salvare la vita significa più specificamente salvaguardare la qualità della vita, renderla allegra. Si ricorda Walser che dice «Dio odia i tristi»? Io cerco di ricordarmelo sempre e, quando me lo dimentico, arriva Flegonte di Tralle, per esempio.

Cosa la fa arrabbiare quando legge un libro? È più un eccesso o una carenza di qualcosa?
Non mi arrabbio mai, ma mi infastidisco molto quando leggo cose che non ambiscono e non hanno una specificità. Per un libro ci vuole una storia, una gestione della lingua e una gestione del tempo. Ecco, per esempio, i libri che non hanno una lingua e che dunque non posseggono una specificità di parola scritta, mi irritano moltissimo. Ma uno impara grazie e nonostante le cose. Quindi, in fondo non mi arrabbio mai. Tutti i libri che mi hanno infastidito o irritato stanno impilati in una sezione che mi ricorda i rischi delle approssimazioni e dell’eccesso di sicurezza nell’utilizzo delle parole scritte.

Fine prima parte.
La seconda parte dell’intervista a Chiara Valerio sarà pubblicata il 24/12/2013.

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