Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento
Gli attentati di Parigi del 13 novembre hanno richiamato, con maggiore forza, l’attenzione dei media e dell'opinione pubblica sulla questione dei foreign fighter. Cittadini europei o immigrati di seconda generazione che scelgono di abbracciare l'Islam più radicale e combattere per lo jihad, addestrati in campi allestiti in Medio Oriente, spesso ritornano in Europa e il motivo si teme possa essere la realizzazione di attentati kamikaze.
Lo stesso commando responsabile degli assalti di Parigi era composto da nove persone, di cui sei cittadini europei. Allora in molti si chiedono quale sia l’utilità della chiusura delle frontiere auspicata da alcune forze politiche come deterrente all’ingresso in Europa di stranieri considerati potenziali attentatori. Altri invece cercano di focalizzare l’interesse sui foreign fighter perché rappresenterebbero quest’ultimi il reale pericolo da cui difendersi.
Chi sono i foreign fighter? Da dove provengono? A quali ceti sociali appartengono? Perché scelgono di convertirsi all'Islam radicale? Davvero questo rappresenta l’ultima grande utopia del Novecento?
Abbiamo rivolto queste domande a Renzo Guolo, docente di Sociologia della politica e Sociologia della religione presso l’Università degli Studi di Padova e di Sociologia dell'islam nel Master di Studi sull'Islam d'Europa, oltre che autore di L'ultima utopia. Gli jihadisti europei (Guerini e Associati, 2015).
Il dibattito attuale sull’Isis, anche a seguito degli attentati del 13 novembre a Parigi, si sofferma spesso sul fenomeno dei foreign fighter, a cui è dedicato il suo saggio L’ultima utopia. Cos’attrae dell’Islam radicale al punto da decidere di andare a combattere per la sua affermazione? È solo la mancanza di ideologie forti in Occidente?
La dimensione ideologica è un elemento rilevante, conferma il fatto che tra i cosiddetti foreign fighter abbiamo un profilo sociale e culturale molto diversificato. Troviamo giovani che provengono dalle banlieue parigine o da Molenbeek, come nel caso degli attentati di novembre, con situazioni di marginalità sociale alle spalle ma anche giovani che provengono da ceti medi. L'ideologia offre loro una sorta di senso che probabilmente dentro al mare fluttuante della modernità liquida non riescono a trovare. Per cui, in condizioni particolari quali il malcontento per la modernità o per la marginalità, questa ideologia che promette di sovvertire e combattere l'ordine mondiale può apparire un elemento che attrae, che dà una forte identità in situazioni in cui queste persone sembrano averne bisogno.
Nel delineare un identikit dei foreign fighter europei, lei nota una trasversalità di fondo che rende difficile stabilire delle caratteristiche fisse, ma ne individua due comuni: sono in prevalenza giovani e diventano musulmani sunniti. Perché l'integralismo islamico riesce a far presa in modo così forte sui giovani europei?
Parliamo di immigrati di seconda generazione per i quali il bagaglio religioso è considerato o un mero elemento culturale o comunque qualcosa di diverso dall'Islam tradizionale, per cui quando decidono di ritrovarlo come ideologia mobilitante imboccano la via del radicalismo proprio per la sua messa in discussione finanche della religione stessa. Per questo tipo di militanti lo jihad è quasi una sorta di sesto pilastro dell'Islam ma se si va a vedere la dottrina islamica non c'è alcun obbligo del credente rispetto a questa dimensione. È evidente che la religione viene vissuta non più come tradizione ma come sostegno alla mobilitazione politica. Il 90% del mondo islamico è sunnita e il radicalismo islamico si è sviluppato, così come noi lo conosciamo ovvero nella forma dello jihadismo, al suo interno, mentre nel mondo sciita di fatto è diventato Stato con la Rivoluzione iraniana del 1979. Anche nel campo dell'Islam politico-radicale in sostanza sono state riprodotte le fratture confessionali antiche.
Tra i foreign fighter in Siria e in Iraq spiccano anche immigrati di seconda generazione. A quale loro esigenza, che non trova riscontro in Occidente, potrebbe rispondere l’Isis? Si può parlare di un’integrazione mancata?
Sì, l'integrazione mancata è un elemento chiave. Lo vediamo attraverso i percorsi per gli immigrati di seconda generazione per esempio nei sobborghi metropolitani londinesi oppure nelle banlieue francesi. Un'integrazione mancata è evidente nel grande percorso che è stato fatto nel tempo dai giovani di banlieue se pensiamo al Movimento di rivolta della fine degli anni '80. Rompevano le vetrine e si appropriavano dei beni e, paradossalmente, chiedevano l'integrazione attraverso il consumo. Oppure ancora nella rivolta nelle periferiedel 2005 contro l'idea francese dei valori universali veicolati del modello assimilazionista. Testimonianze tutte del fatto che il processo di integrazione si era fermato.
L'Isis è riuscito, facendosi Stato, a mostrare l'Islam radicale come ultima ideologia capace di sovvertire lo status quo appena descritto. E questi ragazzi hanno maturato una sorta di nichilismo religioso con l'idea di distruggere tutto, rovesciare un ordine in cui non ci si può più riconoscere per cercare di instaurarne un altro.
Per comprendere gli accadimenti e le scelte compiute dai foreign fighter lei suggerisce di ampliare il raggio di azione degli studi verso l'analisi del concetto di radicalizzazione e non fermarsi ai risultati delle osservazioni sul terrorismo. Quali sono i punti sostanziali su cui bisogna focalizzare l’attenzione per scandagliare al meglio il fenomeno?
Il concetto di radicalizzazione ci consente di capire cosa succede prima che queste persone scelgano di aderire all'Islam radicale e quindi, in qualche modo, di mettere in atto azioni di prevenzione da parte delle istituzioni, delle società. Proprio perché la radicalizzazione è un processo, si tratta di comprendere quali sono i fattori sociali che possono indurre queste persone ad aderire. Oggi ammontano a circa 5000 gli europei tra i foreign fighter in Siria e Iraq o che ci sono stati in questi anni. Il numero è altissimo. Capire i processi che portano alla radicalizzazione permette anche di comprendere quali scelte politiche e sociali compiere per cercare almeno di ridurre il fenomeno.
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Lei indica tra i luoghi della radicalizzazione le moschee, il carcere e soprattutto la Rete. Non è la prima volta che a questa viene imputata una responsabilità in tal senso. Quanto ha inciso sullo jihadismo attuale e quanto lo ha condizionato l'essere nell'era della digitalizzazione?
Ha inciso moltissimo perché un tempo per leggere, ad esempio, il testo di un predicatore islamista radicale bisognava conoscere qualcuno che potesse renderlo disponibile, oppure procurarselo... ma diventava difficile. Oggi invece se voglio leggere i teorici radicali o certe interpretazioni specifiche, la Rete offre un'enorme possibilità di accesso. In più questa è interattiva e ciò consente anche di comunicare con ambienti islamisti radicali. La capacità di proliferazione è molto più accentuata. Basti pensare all'attenzione spasmodica che l'Isis assegna alla costruzione non solo del messaggio ma della produzione mediatica dei docu-film fino ai reportage di combattimento e ai videogiochi di guerra in versione islamista radicale.
Uno dei temi più sentiti dello jihadismo è quello di Shahīd, cioè l’essere testimone della fedeattraverso concrete operazioni di testimonianza. Spesso ciò equivale a trasformarsi in veri e propri martiri. Come si inseriscono i foreign fighter in questo? E come interpretano il martirio?
Nell'ideologia radicale il cosiddetto martirio ha un ruolo centrale. Nel momento in cui si aderisce a questi gruppi si dà per scontato che ci sia la consapevolezza a considerare lo jihad come un obbligo personale. Per molti giovani che provengono dalle periferie disagiate questo elemento può diventare un gesto che va a riscattare una vita vissuta come sbagliata, segnata da condotte illecite o poco legate ai principi religiosi. Per altri l'idea di diventare martiri coincide col testimoniare, con la propria scelta, un percorso in cui si dimostra che si è stati coerenti fino in fondo. È evidente che la credenza del martirio deve essere fatta propria in pieno. Non è escluso il ripensamento. Pensiamo al caso, probabilmente, dell'ultimo membro del commando di Parigi che sembra essersi sottratto a questo compito. In fondo si tratta di togliere la vita ad altre persone e a se stessi.
Restando in tema, alcuni giornalisti sostengono che il martirio, ovvero l'immolarsi per la causa, spesso equivalente al diventare un kamikaze, in realtà abbia poche valenze religiose o spirituali ma sia dettato da un bisogno economico estremo. In altre parole i martiri acconsentono a diventare tali perché in cambio hanno ricevuto la promessa di un indennizzo/risarcimento per i familiari. Ritiene che questa si possa effettivamente spiegare solo ricorrendo a tale motivazione? Ed è possibile formulare una tale ipotesi anche per i foreign fighter?
Ci sono casi molto diversi, può esserci anche l'elemento della compensazione materiale. Ma non è questo l'elemento determinante, che io penso sia legato all'idea di sacrificio di sé per una causa superiore. Lo abbiamo visto anche con i tanti casi di suicidio in Iraq e Siria: molti foreign fighter che si sono fatti saltare in aria lo hanno visto come la logica conclusione di un percorso di rifiuto dell'esistenza precedente ed è come se si cercasse, con questa scelta, di tagliare i ponti con tutto quello che era terreno per porsi in un piano extra-mondano. Il motto che ripetono spesso è: non c'è altra ricompensa più grande del martirio, visto come un qualcosa che regala una forte identità personale e consente di metterla al servizio della causa.
Il titolo del suo saggio è molto emblematico, ma “ultima” è da intendersi nel senso di “definitiva” o nel senso di “più recente”, l’ultima in ordine cronologico? Cioè, ritiene possibile pensare a un’utopia in grado di fronteggiare quella proposta dall’Isis?
Le utopie si presentano ciclicamente, quando ho scelto il titolo “ultima” l'ho legata sia al fatto che io leggo il radicalismo islamico come l'ultima grande utopia del Novecento, anche se i suoi effetti si vedono nel nuovo millennio, e al contempo è come se fosse l'ultima perché oltre questa sembra non esserci più niente. Questa può essere l'ultima utopia che si realizza anche attraverso la morte, per cui diventa una dimensione in cui la vicenda extra-terrena ha altrettanta e forse maggiore rilevanza di quanto accade nel regno del qui e ora.
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