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“Chi manda le onde”di Fabio Genovesi, un susseguirsi di racconti

Fabio Genovesi, Chi manda le ondeÈ Fabio Genovesi con il suo Chi manda le onde la scommessa di Mondadori per lo Strega di quest’anno; un premio che per far scoccare la scintilla di combustione nel motore sembra ormai avere bisogno di stratagemmi, colpi di scena, guanti lanciati e raccolti. Eppure basterebbe fermarsi ad ascoltare le storie, per accendersi.

Genovesi ha teso bene l’orecchio e, abituato com’è alla polifonia del teatro, ma anche alle pedalate feroci del ciclismo, del gioco di squadra, ci ha regalato tante storie una dentro l’altra, un libro marsupio, un’infinita matrioska. A leggerlo viene in mente Bolaño, quando diceva che «ogni romanzo è un susseguirsi di racconti – come tutto nella vita, del resto –, di storie che si vanno intrecciando». E si chiedeva «come cazzo si fa» a scrivere qualcosa con una sola storia: «chi pensa una cosa del genere è un idiota». Chi manda le onde fa pensare al sistema ferroviario indiano, un reticolo mastodontico di persone, peripezie, percorsi, di gente sul tetto dei vagoni, da dove ogni tanto qualcuno scende o cade, un’umanità calda e colorata, spesso figlia della necessità e impegnata in un viaggio talmente lungo da far credere di rimanere immobile.

Dispiace un po’ ingabbiare tanto consorzio umano nello schema di una recensione, suddividere in punti ragionati ciò che l’autore ha lasciato fluire in libertà. Si può tentare di definirlo, forse, solo attraverso grandi contrapposizioni, movimenti o elementi opposti. La prima antitesi è senz’altro tra mito lunare e tellurico e, in fondo, racchiude e riassume tutto il resto. Non esistono però, in questo romanzo, principi generali, temi vasti, magari astrali, che conducano alla scoperta di grandi verità; al contrario, non c’è Storia che non nasca dalle storie, dal particolare, dall’esperienza vissuta, dal dolore di uno strappo, da una gioia ricucita. E se qualcuno poi se la sente di estrarre qualche conclusione da tanto magma, lo fa sotto la propria responsabilità, ma dovrà essere cosciente del fatto che spesso «il problema non sono le bugie. Il problema è la verità, che fa proprio schifo», oppure «è più assurda di qualsiasi storia inventata» (perciò più interessante da raccontare).

Il mito della luna, quindi; lo incarna proprio Luna, tredicenne albina intersecata con gli estruschi e l’antica Luni. Lei vede il mondo sempre un po’ sfocato, filtrato dagli occhiali da sole che proteggono la sua pelle delicatissima dal troppo chiarore con cui la schifosa verità ci abbaglia. Sotto il cappuccio della felpa e lo strato di crema solare, questa ragazzina è un po’ più protagonista degli altri insieme al suo amico Zot, l’orfano radioattivo di Chernobyl, dimenticato in Italia dai russi al termine di un programma di accoglienza. Luna e Zot sono bambini vecchi, non solo nell’aspetto (i capelli bianchi di lei, l’italiano ottocentesco di lui e un’età anagrafica mai ben definita), quanto nella maturità, che supplisce quella degli adulti, così in erba.

Fabio Genovesi

Ed ecco la seconda opposizione, bambini e adulti, ruoli invertiti; i bambini, stanchi delle insicurezze di genitori, nonni, amici e parenti tutti, prenderebbero volentieri il largo, ma sanno che i grandi, senza di loro, «sono spacciati». E poi i quarantenni procastinatori («non posso neanche dire che non sono riuscito a fare quello che volevo nella vita, perché non ci ho nemmeno provato, ho solo rimandato tutto») opposti a loro volta agli inossidabili, irriducibili, incalliti genitori settantenni, che hanno i «trombamici» mentre i figli vivono in immacolata castità, che usano mine e fucili per farsi strada, che conservano intatto «quell’istinto schifoso a essere protagonista sempre e per forza». Questo, i nonnetti. Famelici e onnivori. La loro prole invece naviga tra le supplenze del supplente del supplente a scuola e il lunedì annusa la spiaggia col metaldetector fabbricato in casa, nella speranza che durante il fine settimana i turisti abbiano perso qualche oggetto prezioso, per farne misero bottino. E mentre frugano riconoscono che quello «non è vivere, è morire a rallentatore».

La morte, nel libro, batte più colpi, solo all’apparenza attutiti dall’ironia. Esce da un enorme portadolci sistemato in salotto, sale dal mare, si stipa in un freezer, dà perfino il nome a una grappa e poi torna ai piedi del letto con cinque fantasmi. Dire che si contrappone alla vita è troppo facile; l’abbraccia, piuttosto, sta tutto intorno, come le onde. Così è anche il dolore, e tu rimani fermo e ti lasci circondare perché il buio spesso è comodo e caldo, è il nido ovattato che ti tiene al riparo dalla vita, che invece «è un temporale, una burrasca. È una tempesta di schiaffi con dentro, per sbaglio, una carezza». Immobilità, movimento, ancora opposizione. Tra una generazione che deve ancora «fare il primo passo» e il mondo che, un centimetro più in là dell’inanizione, è un gorgo e può portarti via tutto, compreso te stesso, e non te ne accorgi nemmeno.

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Rimettere in moto e sciogliere l’imbottigliamento. Smettere di appoggiare le cose per terra e lasciarle morire così, pur di non portarle a termine. Non lasciarsi sballottare inerti dalle opposizioni scontate, da cielo e terra, vita e morte, vecchiaia e gioventù, verità e menzogna, sole e luna, riso e pianto. Reagire, semplicemente, con una gran voglia di normalità (ma poi, la normalità, cos’è? Perché «siamo tutti normali fino a che non ci conosci abbastanza»).

Sullo sfondo, ancora la Versilia di Genovesi, declinata in quel modo così suo. Non solo il Forte che «per due mesi è Las Vegas e il resto dell’anno Bucarest», come in Versilia Rock City; anche uno sguardo più pudico sull’assenza di futuro e la disoccupazione, già raccontata in Esche vive, edito sempre da Mondadori nel 2013. Questa volta è la natura di quei luoghi a prevalere, le montagne e il mare così vicini tra loro da essere costretti a baciarsi in spiaggia, l’incanto della Lunigiana, il mistero, la magia, l’evocazione.

Fabio Genovesi

Per parlare, poi, ogni personaggio usa la propria, specifica, persona del verbo; è la scelta difficile di chi giura fedeltà alla varietà dei caratteri, degli accenti, delle sensibilità. E così, per esempio, Serena si racconta in seconda persona, perché l’universo femminile è talmente nebuloso e sconosciuto che va affrontato prendendolo con le pinze; lei poi è una che si tiene lontano dagli uomini, se «rischiano di facilitarle la vita», perché le fanno tristezza, anzi, li prende e li scaraventa contro i muri. A Luna spetta invece di diritto la prima persona, quella senza peli sulla lingua dei bambini vecchi, che proprio per l’età possono concedersi di mettere in riga il mondo. A dare manforte, una scrittura strinta, parole che escono a cubetti o tritate dalle bocche di una generazione svantaggiata – quella di Sandro, Marino, Rambo e Serena –, che fino all’ultima riga si rivela incapace di trasmettere, di comunicare. L’afasia è forse la loro unica colpa.

Le cose, però, quando devono succedere, succedono, e «se ne sbattono dell’impossibile e dell’assurdo». Così, nonostante gli ingorghi delle contrapposizioni, i lavori in corso non segnalati, i dossi, i dissesti, le curve a gomito e la circolazione dei pensieri a senso unico anziché alternato, non s’ingrippa mai il motore delle storie nella Storia che Fabio Genovesi accende con Chi manda le onde.

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