Che fine hanno fatto le radio libere?
C’erano una volta le radio libere in Italia. Quarant’anni fa la sentenza 202 del 1976 della Corte Costituzionale liberalizza l’etere, mettendo fine al monopolio dell’emittente di Stato. A metà tra la pirateria e la tenerezza che ispiravano quei primi timidi tentativi, le radio libere avevano conquistato tutti, diventando il megafono della protesta (vedi Radio Alice a Bologna), dell’impegno contro la mafia (come Radio Aut di Peppino Impastato in Sicilia) o semplici palestre dove tanti professionisti si sono fatti le ossa. In fondo, la radio ha un fascino ancora oggi valido. Alzi la mano chi non ha mai sognato, almeno una volta, di parlare al microfono, commentando i fatti del giorno oppure lanciando le hit del momento. Per saperne di più, abbiamo intervistato uno speaker, disk jockey e imprenditore, titolare dell’emittente Radio 3 Network: Mirco Roppolo ha intrapreso questa strada quasi per gioco, a 12 anni, smanettando all’inizio con radio e ricetrasmittenti, per poi capire che quella passione poteva trasformarsi in un vero lavoro.
Che cosa hanno significato le Radio Libere per l’Italia?
Sicuramente una svolta importante per la libertà di espressione, mi sento di dire così a freddo. È stato un momento di rottura, considerato il contesto storico in cui sono nate, ovvero la metà degli anni Settanta. Hanno posto fine al monopolio della RAI, sia dal punto di vista tecnico sia dei contenuti. Fino a quel momento nessuno poteva installare trasmettitori, né diffondere un segnale radio. Non erano previste licenze, contratti o concessioni per privati. In onda in un regime di pura pirateria, le radio libere hanno dovuto aspettare il 1976 per la sentenza della Corte Costituzionale che ha liberalizzato l’etere, mentre solo molti anni dopo, negli anni Novanta con la legge Mammì, è arrivato un regolamento specifico in materia, che però presenta ancora molte lacune.
Certo è che il monopolio mediatico non era una prerogativa tutta nostra. Penso, ad esempio, all’Inghilterra, dove hanno vissuto un’esperienza analoga molti anni prima. A documentarlo anche il film I love Radio Rock di Richard Curtis.
Oltre che tecnica, la rivoluzione è stata anche ideologica: movimenti e partiti politici, gruppi di giovani che non si sentivano rappresentati dalla programmazione antiquata della RAI e che volevano dire qualcosa di più, hanno scelto la radio come mezzo di comunicazione per la sua immediatezza, per la sua diffusione e per la possibilità di coinvolgere il pubblico su vari temi. Insieme al mixer, al microfono e al giradischi, infatti, ogni emittente era dotata di telefono, strumento indispensabile per interagire, per creare dibattito, per essere più vicini alle persone. L’informazione locale era al centro delle trasmissioni e finalmente qualcuno si rivolgeva al territorio, si avvicinava ai veri problemi della gente. A qualcuno questo impegno è costato caro, come a Radio Alice di Bologna, chiusa con intervento militare dopo aver dato voce agli scontri studenteschi, o a Peppino Impastato che ha sfidato la mafia ai microfoni di Radio Aut.
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E la musica come si inserisce in questo contesto?
Anche la cultura musicale in Italia ha subìto una grande evoluzione grazie alle radio libere. O meglio, certi generi musicali hanno trovato finalmente un posto nella programmazione quotidiana, raggiungendo un pubblico ampio. Anzi, molte radio libere erano interamente musicali e di intrattenimento, come lo sono tante radio private oggi. La selezione musicale della RAI, quella mainstream dell’epoca – per usare un termine moderno –, era operata seguendo dei criteri molto rigidi: generi come il rock, il beat o il punk non trovavano posto nel palinsesto della radio di Stato, a parte in qualche rara trasmissione di rottura, come lo è stata Alto Gradimento del trio Boncompagni – Arbore – Bracardi. Anche le canzoni di Fabrizio De André erano state in un certo senso censurate.
La vera novità è stata la crescente importanza del disk jockey, che imprimeva il suo stile, la sua personalità e la sua cultura attraverso la scelta dei brani. Il dj soddisfaceva anche le richieste degli ascoltatori, che a loro volta sentivano il bisogno di condividere le loro canzoni preferite.
Quanto costava fare radio in quel periodo? Era davvero solo voglia di ribellione o l’inizio di una possibile professione?
Una piccola premessa: non si metteva in piedi una radio da soli, era un lavoro di gruppo. E in quel gruppo c’era sempre l’appassionato di elettronica che sapeva come muoversi e che aveva voglia di sperimentare. Si può dire che i tecnici hanno avuto un approccio da pionieri, perché spesso convertivano e adattavano apparecchiature provenienti da surplus militari o costruivano i trasmettitori da zero acquistando i kit di montaggio. Tutto questo perché acquistare un trasmettitore vero broadcast aveva costi altissimi.
Gli studi venivano allestiti in soffitte, in cantine, in luoghi di fortuna; il banco della messa in onda era composto da registratori e giradischi, spesso portati da casa da chi trasmetteva. E poi è emerso un aspetto importante: chi pagava le bollette, l’affitto di uno spazio, i dischi, le attrezzature che nel tempo venivano aggiornate? Si è resa necessaria così la raccolta pubblicitaria, che in un primo momento era la sponsorizzazione dei singoli programmi in diretta.
Le possibilità professionali sono emerse subito. È vero che la radio, a chi la faceva, serviva per ascoltare musica, per divertirsi, per fare gruppo. Era un punto di aggregazione. È anche vero che nel tempo la qualità dei programmi è migliorata perché chi si è avvicinato a questo mezzo lo ha fatto spinto dall'esigenza di comunicare, di fare controinformazione. Parlando dei giornalisti, molti hanno avuto la possibilità di mettersi alla prova e di fare la gavetta proprio nelle radio private, crescendo così professionalmente. Musicisti, presentatori e uomini di spettacolo di oggi, invece, hanno fatto i dj: mi vengono in mente personaggi come Gerry Scotti che ha iniziato a Radio Milano International, o Jovanotti che ha lavorato a Radio Foxes Cortona, ora Radio 3 Network (eh eh eh).
Di quel periodo che cosa è rimasto, a parte qualche nome famoso degli esordi come Anna Pettinelli o Carlo Conti, in quelle che oggi chiamiamo, invece, radio commerciali?
Il destino di molte radio libere è stato quello di trasformarsi in semplici radio private oppure di vendere le frequenze ad altre radio commerciali e chiudere i battenti. Delle nate in quel periodo, oggi ne sono sopravvissute ben poche, tra le quali Radio Popolare di Milano, Radio Onda Rossa a Roma, Controradio e Radio Wave in Toscana, Radio Kiss Kiss in Campania.
Qual è il fascino della radio ancora oggi, a 40 anni di distanza?
Le radio private che non fanno parte di circuiti o di grandi network sono le vere eredi delle radio libere: non hanno colore politico, legami con le case discografiche, limiti sui contenuti da trasmettere. Rappresentano il territorio e gli danno voce.
Come vede il futuro di queste emittenti e, più in generale, della radio?
A chi pensa che la radio sia superata, rispondo che in rete non è possibile ricreare un’esperienza analoga a quella dell’emissione in etere, perché la webradio va a sommarsi ad altri canali provenienti da tutto il mondo, disperdendo così il suo potere più grande: la vicinanza al territorio. Non sto demonizzando lo streaming, anzi! È uno strumento importante al servizio della radio, perché aiuta a estendere la copertura, anche se non è necessario per una radio italiana farsi sentire a Sidney. Il matrimonio più riuscito tra web e radio è il podcasting, perché così, quello che prima andava in onda una volta sola, ora è a disposizione di tutti in qualsiasi momento.
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