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Che cos'è l'economia del benessere e su quali azioni puntare? Intervista a Lorenzo Fioramonti

Che cos'è l'economia del benessere e su quali azioni puntare? Intervista a Lorenzo FioramontiIn un’epoca così difficile le idee positive sono rare. In Un’economia per stare bene. Dalla Pandemia del Coronavirus alla salute delle persone e dell’ambiente  (Chiarelettere) Lorenzo Fioramonti, già Ministro dell’Istruzione, traccia una nuova strada verso un’economia sostenibile, capace di dare il giusto valore alle Istituzioni che hanno il compito di costruire il futuro e rinnovata centralità al capitale umano. È dunque dalla scuola che deve partire una nuova rivoluzione che porti a un mondo più inclusivo e a un paradigma economico totalmente rinnovato. Ma in cosa consiste questo nuovo paradigma? Quali sono i suoi elementi caratterizzanti? È quello di cui abbiamo discusso con Lorenzo Fioramonti nella nostra intervista.

 

Onorevole, il titolo del suo libro riporta al centro una questione importante. Qual è l'economia per stare bene? E perché è così complessa una transizione verso un nuovo paradigma economico?

Un’economia per stare bene è un’economia che rimette al centro la salute delle persone e la salute dell’ambiente, che sono le due principali ragioni che ci permettono di vivere bene. Paradossalmente negli ultimi decenni abbiamo costruito un’economia che ha fatto quasi di tutto per mettere a repentaglio e indebolire proprio queste due dimensioni. Abbiamo spesso sentito parlare della necessità delle politiche di sviluppo di realizzarsi anche questo andava a scapito della salute. Pensiamo ad esempio agli effetti dell’inquinamento atmosferico, allo smog nelle città. Siamo stati abituati a ragionare secondo un modello che pone la salute qualcosa a cui si deve rinunciare o che si può mettere in secondo piano per assicurare lo sviluppo. Tanto che per esempio negli ultimi anni abbiamo tagliato tantissimo l’investimento nel sistema sanitario nazionale proprio perché si è pensato che non fosse prioritario investire nella salute delle persone, ma sostenere infrastrutture di sviluppo, supportare un sistema di consumi che in molti casi ha anche aggravato alcune patologie. Penso ai consumi dannosi per la salute come quello degli zuccheri e il cibo spazzatura, che negli ultimi anni si è moltiplicato a dismisura a scapito del cibo salutare.

Lo stesso vale per l’ambiente: quante volte abbiamo sentito dire da parte della politica e delle industrie che lo sviluppo è più importante della salvaguardia ambientale? Oppure che l’inquinamento è parte del processo di sviluppo e che i cambiamenti non vanno affrontati perché priorità va data alle risorse energetiche, alla produzione di energas anche se questa è inquinante?

Non possiamo più permettercelo. E dobbiamo renderci conto che la salute delle persone e dell’ambiente è essenziale per perseguire qualsiasi attività umana. senza queste siamo destinati all’autodistruzione e paradossalmente alla distruzione della stessa economia. La difficoltà nel rendere concreto tutto questo dipende dal fatto che finora qualcuno ci ha guadagnato. Ci sono tanti interessi industriali ed economici in gioco che premono affinché un sistema venga salvaguardato anche se sbagliato. C’è qualcuno che ha guadagnato dalla mancanza di salute pubblica, o dal fatto che potesse vendere prodotti dannosi per la salute dell’ambiente senza che nessuno li tassasse di più o li sanzionasse, o addirittura dal fatto che, producendo energia da risorse fossili, ha potuto accumulare ricchezze ingenti, scaricando sulla società tutti i costi umani e ambientali.

 

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Lei afferma che il PIL ha fatto il suo tempo, e che è giunta l’ora di passare a un’economia del benessere. Quali potrebbero essere i primi passi da compiere già oggi verso un obiettivo così ambizioso?

Il PIL ha fatto il suo tempo perché è un pessimo indicatore di performance economica: ci dice quanto produciamo e spendiamo ma non ci dice nulla sulla qualità. C’è una bella differenza. Se produciamo armamenti o energia distruggendo l’ambiente (quindi creando una perdita), oppure creiamo energia in maniera pulita c’è una bella differenza. Un Paese può crescere economicamente anche facendo le cose sbagliate per il benessere dei suoi cittadini. È quindi necessario andare oltre il PIL perché è una misura anacronistica. Ecco, una delle prime azioni che mi aspetterei da parte di molti governi (alcuni già lo fanno) e di partiti politici è cominciare a dire la verità: se vogliamo combattere i cambiamenti climatici, superare la pandemia da covid, creare delle società più uguali ed egualitarie, più sostenibili dobbiamo andare oltre il PIL e cominciare a tener conto di altre variabili: la qualità della salute, per esempio, la qualità degli ecosistemi. Dovremmo avere degli indicatori – alcuni già esistono – che mettano i politici in condizione di dire verificare l’impatto dello sviluppo e della produzione industriale sull’ambiente e le perdite che questo comporta in termini di ecosistemi.

Dobbiamo assolutamente fare qualcosa perché gli ecosistemi sono fondamentali per la stessa economia. Stiamo perdendo capitale umano, e dobbiamo fare qualcosa perché il capitale umano, la conoscenza sono fondamentali per l’economia. Tutto questo non lo consideriamo neanche quando progettiamo le politiche economiche. E invece sarebbe uno dei primi accorgimenti da prendere. Il secondo aspetto da considerare sarebbe un sistema fiscale che sia adeguato a supportare questo ragionamento; un sistema fiscale che faccia una cosa che tutti sanno da tanto tempo ma che non si è mai fatta, e cioè tassare le esternalità negative e ricompensare quelle positive: se io produco qualcosa che danneggia l’ambiente la mia produzione viene tassata di più perché quei soldi vanno a ripristinare il danno che ho causato. Se invece produco qualcosa che fa bene alla salute delle persone e dell’ambiente, è giusto che usufruisca di una riduzione delle tasse. Ed è giusto che chi acquisti prodotti che non hanno un impatto negativo sulla salute e sull’ambiente li paghi di meno. In questo modo ci sarebbe un incentivo sia per l’azienda che per chi compra. Abbiamo bisogno di quello che chiamo un fisco intelligente, cioè che aiuti il mondo della produzione e dei consumi (aziende e cittadini) a ri-orientare le loro priorità e quindi a fare cose che aumentino il loro benessere e il benessere della società in cui vivono. Questo fisco intelligente deve necessariamente intervenire per risolvere alcuni problemi annosi: il maggior costo dei prodotti sfusi rispetto a quelli imballati e dei prodotti locali, magari salutari e biologici rispetto a quelli industriali. In questo dovrebbe intervenire un sistema fiscale che favorisca i primi rispetto ai secondi. Non possiamo avere un sistema fiscale che fa esattamente l’opposto, cioè che toglie le tasse a ciò che fa male e le aumenta a ciò che fa bene.

Che cos'è l'economia del benessere e su quali azioni puntare? Intervista a Lorenzo Fioramonti

In molti, incluso lei, sostengono che il coronavirus e la pandemia che ne è derivata, possa fungere da pungolo per un cambiamento. Quali nostri errori ha reso evidente la pandemia? E come possiamo correggerli?

La pandemia ha reso evidenti molteplici errori. Il primo è quello di non aver considerato la salute delle persone come fondamentale. Ci siamo trovati con dei sistemi sanitari indeboliti, per cui quando è arrivata la pandemia siamo stati colti di sorpresa. E, ovviamente, quando si indeboliscono i sistemi di salute pubblica, si indeboliscono di conseguenza la società e l’economia. Non è un caso, per esempio, che i Paesi che hanno o avevano la migliore sanità pubblica sono anche quelli che hanno affrontato meglio la pandemia e hanno avuto meno danni economici. Paradossalmente era un po’ come avere un sistema di assicurazione: i Paesi che in passato non hanno tolto fondi alla sanità per ragioni meramente economiche, si sono trovati in una condizione di forza e quindi hanno subito anche minori danni economici dalla pandemia. Questo è il contrario delle ricette liberiste seguendo le quali molti Paesi hanno tolto finanziamenti alla sanità, pensando che così si creasse crescita economica, si liberassero nuove energie e si potesse intervenire in altre operazioni di mercato. Questi Paesi invece si sono ritrovati esposti alla pandemia e hanno subito maggiori danni economici, come l’Inghilterra ad esempio, o gli USA che per foraggiare un’economia di mercato non hanno mai investito nel servizio sanitario nazionale e oggi sono il Paese di gran lunga più colpito al mondo.

Il secondo errore è quello di aver sottovalutato l’importanza dell’ambiente. Non solo perché il coronavirus viene da un’interferenza nei confronti di ecosistemi naturali: tutti i coronavirus hanno un’origine di carattere ambientale, cioè sono virus che esistono all’interno di strutture forestali che l’uomo ha distrutto liberando gli agenti patogeni che a quel punto sono usciti dal contesto in cui hanno vissuto per milioni di anni e si sono diffusi nella società. Se noi avessimo lasciato quegli ecosistemi intatti non avremmo avuto questo tipo di problemi. E questo accade ogni qualvolta si distrugge un ecosistema.

Ma poi, per esempio, abbiamo scoperto che i Paesi più inquinati sono anche quelli che hanno subito i peggiori danni da contagio e mortalità di coronavirus. C’è un legame diretto, per esempio, tra inquinamento atmosferico e patologie da coronavirus perché ora sappiamo che se respiri una pessima aria il tuo sistema immunitario è più debole rispetto a quello di una persona che respira aria pulita. Non è un caso, e su questo sono stati già pubblicati molti paper, che buona parte del contagio in Italia si sia concentrata nelle zone della Pianura Padana, dove il livello di inquinamento delle polveri sottili è altissimo.

Un altro errore che il covid ha messo in evidenza è la debolezza di questo sistema globalizzato. Abbiamo costruito un sistema globale in cui se ordino qualcosa su Amazon tra un giorno ce l’ho sulla porta di casa, eppure non abbiamo mai investito su un sistema di salute globale. Quindi abbiamo scoperto, per esempio, che avevamo protocolli precisi per la gestione del commercio internazionale ma non c’è mai stato un protocollo globale di gestione della salute pubblica. Quindi quando c’è stato il coronavirus ogni Paese è andato a casaccio. Come se fossimo tornati a un nazionalismo primitivo: non c’era un organismo – neanche l’OMS – che avesse un protocollo da mettere in campo per gestire tutto questo. Ci siamo ritrovati in una situazione di caos globale.

In pratica abbiamo investito su una globalizzazione dei consumi senza mai pensare di investire su una globalizzazione della risoluzione dei problemi. E il covid ha anche dimostrato la grande fragilità di questo sistema, per cui dall’oggi al domani ci siamo ritrovati senza prodotti, con i supermercati vuoti, ci siamo ritrovati in condizioni difficili perché magari cose che avevamo sempre importato improvvisamente non arrivavano più: un caso tipico sono le valvole dei respiratori, sempre importate dall’estero. Ora, col coronavirus, era difficile importarle e le imprese erano chiuse, non si riusciva più ad avere lo stesso sistema di commercio internazionale e si rischiava di non poter neanche trattare i pazienti degli ospedali perché mancavano dei materiali tecnici che abbiamo sempre importato dall’estero, e siamo tornati per esempio ad apprezzare la produzione locale. Perché questa è sempre disponibile. Se hai investito in questo tipo di produzione, il mercato internazionale può anche chiudere ma tu sei comunque in grado di andare avanti. Quindi oggi sappiamo che le società più resilienti non sono quelle che si affidano ai mercati internazionali, ma quelle che hanno forti capacità di produzione locale e un buon mercato locale. Perché quando arrivano i momenti di difficoltà il mercato internazionale ti molla.

 

Vorrei aprire con lei il capitolo riguardante il Ministero dell’Istruzione. Lei è stato Ministro dell’istruzione, pur non coprendo l’arco di un’intera legislatura. Che idea si è fatto del funzionamento di un organismo così complesso?

Il Ministero dell’Istruzione è stato per troppi anni abbandonato a se stesso. È stato relegato come se fosse un Ministero di secondo piano. Ci andavano i politici con dei profili meno importanti dal punto di vista della carriera politica. Gravissimo errore, perché questo dovrebbe essere il Ministero più ambito, perché è il Ministero delle giovani generazioni, del futuro, il Ministero che pensa a creare quella che domani sarà la nuova classe dirigente. E io l’ho trovato sottofinanziato. Ho trovato un Ministero che aveva molte speranze, una visione. Negli anni è stato gestito un po’ come un luogo, un contesto da cui ricavare risorse, tagliando, o come un parcheggio. E invece il Ministero dell’Istruzione, che poi al mio tempo era anche il Ministero dell’università e della ricerca, dovrebbe essere il Ministero dell’innovazione, della creatività, quindi il massimo della voglia di futuro. Io ho trovato invece un Ministero che guardava molto al passato, molto chiuso su se stesso e ho cercato sia da viceministro sia da ministro di trasformarlo in qualcosa che invece avesse grandi ambizioni, una grande visione, che volesse mettere al centro gli studenti una volta tanto. Non è un caso che da ministro mi sia esposto pubblicamente sulla questione dello sciopero degli studenti sul clima, appoggiandolo e riconoscendolo come un modo per portare la scuola nella società. E non è un caso che da Ministro abbia attivato molte iniziative trasversali con gli studenti. Al mio tempo il Ministero era frequentato quotidianamente da gruppi di studenti e scolaresche. Ho fatto gli Stati generali dell’alta formazione artistica, perché ritengo che la creatività, l’arte, la musica e la danza siano fondamentali per una visione di futuro per il nostro Paese. Paradossale che oggi l’Italia sia indietro rispetto a tanti altri Paesi sul fronte dell’arte, della danza e della cultura, proprio noi che le abbiamo inventate. Tutto questo vuol dire ridare al Ministero dell’istruzione una sua centralità.

 

Dunque cosa comincerebbe a cambiare in sostanza? Forse è anche per questo che nel libro lancia l’idea dei ministeri che funzionano in maniera orizzontale. Magari partendo da questo si potrebbe cominciare una piccola rivoluzione?

Assolutamente sì. Perché vede, la centralità dell’istruzione significa anche recuperare una visione di insieme del governo. Non possiamo avere un governo che agisce per compartimenti, secondo cui un Ministero si occupa solo di una cosa e un altro Ministero solo di un’altra. Perché una buona istruzione ha un impatto positivo sullo sviluppo, sull’economia, sul lavoro. Avere dei lavoratori formati e capaci significa che il Ministero del lavoro è contento. Avere dei cittadini che si sono formati sulla sostenibilità, sulla responsabilità civile e così via significa avere persone che trattano meglio l’ambiente e dunque il Ministro dell’ambiente dovrebbe essere contento. Lo stesso vale per tutto: avere per esempio dei cittadini che sono in migliore salute – parlo quindi a nome del ministero della salute – dovrebbe essere una cosa positiva che tutti possono rivendicare. Il fatto che non ci ammaliamo è una cosa buona per l’economia, quindi il Ministro dell’economia dovrebbe essere contento di aver investito nel Ministero della salute, così come dovrebbe essere contento il Ministro del lavoro che più soldi vadano al Ministero della salute perché quello avrà un impatto positivo sulla qualità del lavoro. Invece i Ministeri oggi competono. Si fanno i dispetti nella speranza di attrarre più finanziamenti. Perché manca una visione d’insieme. Quindi vedrei di buon grado,ad esempio, un ministro che sia pronto a rinunciare ai suoi finanziamenti purché questi vadano all’istruzione, alla salute e all’ambiente visto che  i loro effetti positivi avranno un ritorno in termini di effetti positivi anche sul suo Ministero. Ecco, quest’atteggiamento di un governo integrato è molto più saggio e moderno del governo spezzettato che abbiamo oggi.

 

Ci sono molti dubbi sulle modalità di ripresa delle attività didattiche a settembre. Perché solo ora i riflettori sono puntati sulla scuola?

Perché noi arriviamo sempre tardi. Non voglio che questa venga considerata un’offesa nei confronti del mio Paese, ma arriviamo sempre molto tardi. Per due anni ho insistito sulle fragilità della scuola, ho detto più volte pubblicamente – questo mi ha portato anche a uno scontro con il mio governo – che se non si fossero fatti degli investimenti importanti che segnassero un cambio di passo rispetto al passato, avremmo avuto una scuola fragilissima che alla prima folata di vento si sarebbe bloccata. E la folata di vento è arrivata, perché pochi mesi dopo è arrivato questo coronavirus che ci ha costretto a bloccare le scuole. In altri Paesi, dove le classi sono più piccole, i docenti più stabili e meno precari, le scuole sono più piccole e quindi è più facile fare distanziamento e controllare gli studenti anche dal punto di vista della sicurezza, questi hanno potuto riaprire prima. Hanno già riaperto in molti altri Paesi, magari in modo alternato, ma hanno riaperto. Perché hanno delle strutture più resilienti, gruppi più piccoli, docenti più stabili, scuole più distribuite e, come dicevo poco prima, con meno studenti è più facile fare il distanziamento sociale. Non ci vuole molto a capirlo. Il distanziamento sociale è un problema di numeri, soprattutto. Noi siamo arrivati tardi. Oggi si comincia a parlare di scuola, finalmente, perché la gente si preoccupa. Perché le persone hanno capito che quando non funziona la scuola finisce tutto. Fino a ieri non ci si dava la stessa importanza perché tutto sommato si pensava che la scuola fosse sì utile, ma non l’architrave dell’economia del Paese. Oggi invece ci rendiamo conto che se la scuola non funziona i genitori non lavorano, le aziende non aprono, non funziona niente e quindi ci stiamo preoccupando degli effetti che un’eventuale apertura insufficiente e non stabile delle scuole potrebbe avere sull’economia. E la gente sta cominciando davvero a essere disperata. Vedremo cosa accadrà a settembre. Io spero e mi auguro che questo sia un insegnamento, una lezione per il futuro: con la scuola non si scherza e i problemi non si affrontano dopo che si creano, ma si devono anticipare, prevenire.

Che cos'è l'economia del benessere e su quali azioni puntare? Intervista a Lorenzo Fioramonti

In Italia abbiamo un problema importante, quello della disoccupazione giovanile. Lei sa bene che siamo i primi in Europa per NEET, giovani che non lavorano né studiano, e al Sud c’è un tasso di disoccupazione giovanile altissimo, soprattutto nella fascia 25-34 anni. Non crede che il Ministero dell’istruzione in qualche modo dovrebbe interessarsi a questa parte di popolazione così trascurata dalle istituzioni?

Assolutamente sì. Guardi, oggi noi nel sistema di formazione abbiamo una situazione per cui i più deboli sono largamente esclusi. I più deboli possono essere persone che vivono in condizioni di precarietà, in territori più difficili, in condizioni socio-economiche più svantaggiate. Lo abbiamo visto con la didattica a distanza: chi non aveva la casa, i soldi, il computer è rimasto completamente assente in questi mesi, scomparso dai registri scolastici. Le persone con disabilità sono state completamente abbandonate in una situazione di mancata inclusione, perché da un lato non possono avere lo stesso accesso ai sistemi tecnologici con cui collegarsi e dall’altro, salvo eccezioni, in classi con un numero eccessivo di allievi l’integrazione e la partecipazione risulta molto complessa.

Quindi non mi stupisce che tante persone smettano di studiare e se studiano non riescono a trovare lavoro. Perché se noi non trasformiamo la scuola in un vero ascensore sociale in grado di dare nozioni e competenze trasversali e abituare i ragazzi a immaginare nuovi lavori, a prendersi dei rischi, a provare a fare e creare nuove condizioni di sviluppo, non stiamo liberando tutta la grande capacità di innovazione che c’è nel capitale umano italiano. E questo significa meno imprese, lavoratori meno produttivi, persone che si scoraggiano prima, un avvitamento generale che ha gli impatti più disastrosi proprio in quelle parti del Paese che già nascono con un problema, uno svantaggio. E infatti la più alta percentuale di dispersione scolastica si trova soprattutto in quelle zone dove lo svantaggio socio-economico è più forte. Questo la scuola invece dovrebbe cambiarlo, perché dovrebbe diventare quel luogo dove si dà opportunità a tutti. E un Paese in cui si coltivano le opportunità e le conoscenze significa un Paese più dinamico dal punto di vista economico. Oggi abbiamo degli Einstein che non si accorgono neanche di essere Einstein, perché non sono stati valorizzati dalla scuola, dall’università o dal mondo della ricerca. Abbiamo degli imprenditori magari incredibili, tipo Enrico Fermi o Elon Musk – per fare un esempio del passato e del futuro – che non sapranno mai di essere imprenditori innovatori. Perché sono passati in una scuola che non gli ha dato la possibilità di emergere come delle grandi figure. Ogni volta che perdiamo un innovatore, ogni volta che non ci accorgiamo di un grande scienziato, di un grande talento, è una perdita per l’economia del Paese. Non è soltanto un problema di carattere umano fondamentale, ma una perdita per tutti. A me questo sta molto a cuore, l’idea di andare a cercare tutti i talenti e dare loro la possibilità di fiorire, di sbocciare.

 

C’è chi riesce a comunicare bene ciò che ha fatto e chi invece riesce a comunicare bene anche cose non è riuscito a fare o che non ha ancora fatto. Ecco, quale crede che sia il ruolo della comunicazione oggi?

La comunicazione è importantissima ovviamente. È un elemento centrale, perché sulla comunicazione creiamo dell’informazione, la capacità di partecipare, di capire. Senza comunicazione non sappiamo come confrontarci gli uni con gli altri sulle grandi questioni del presente e del futuro. Però mi lasci dire che oggi siamo arrivati a un livello tale per cui sembra che la politica e la realtà siano solo comunicazione. Che fai e ciò che realizzi appare quasi secondario rispetto a ciò che racconti. E di fronte a quest’iperbole della comunicazione fine a se stessa stiamo pregiudicando il futuro del Paese. Perché poi a conti fatti anche se racconti di aver fatto una serie di cose bellissime, a un certo punto la realtà si impone. E questo a me spaventa, perché un Paese che non ha capacità di analisi e non riesce a misurare il valore di chi fa delle proposte rischia di ritrovarsi sempre con una classe politica di chiacchieroni. A me questo fa paura, perché una classe politica di chiacchieroni è tutto tranne ciò di cui abbiamo bisogno. In Italia adesso servirebbero persone corrette, coerenti e in grado di indicare una direzione verso la quale andare per avere possibilità di sviluppo e di futuro, persone in grado di dedicarsi anima e corpo a questo; persone in grado di far capire come se continuiamo con delle cose che magari ci sembrano vantaggiose ora ma che magari domani ci distruggono, finiremo tutti quanti soffocati. Ecco, avere questo coraggio significa intraprendere una scelta di comunicazione che richiede lungimiranza e capacità di analisi anche da parte di chi ascolta. Altrimenti la scelta di comunicazione sarà quella di raccontare sempre ciò che si vuole ascoltare. E questo diventa un suicidio.

 

Nel libro lei descrive alcuni progetti che da Ministro avrebbe voluto portare a termine evidenziando come si fosse mosso per la lotta al precariato e maggiori finanziamenti alla ricerca. Lo ha ricordato anche prima. Ne è valsa la pena abbandonare questi progetti?

Se la domanda me la pone così, non posso che essere d’accordo: non vale mai la pena abbandonare alcun progetto. Ma le rispondo con una domanda, o meglio le do la mia versione dei fatti: per realizzare quei progetti io avevo bisogno di un Governo che stesse dalla mia parte e di un Parlamento che mi sostenesse. E tutti quei progetti sarebbe stato possibile realizzarli solo se si fosse presa una decisione coraggiosa sugli investimenti. Ho impostato tutta la mia azione di governo su questo. E ho messo il Governo nelle condizioni di dover decidere: se continuare a galleggiare, come fatto in passato, oppure cercare di realizzare le cose che avevamo promesso in campagna elettorale. Ci ho provato per il primo anno, non me l’hanno fatto fare, ci ho provato per un secondo anno. A quel punto ho deciso che non potevo continuare ad attendere chissà per quanti altri anni. E allora la seconda volta che sono stato al governo è giunto il momento di fare sul serio. In realtà anche la prima volta era così, però sono un moderato, un diplomatico, cerco di capire. La seconda volta sono stato più risoluto. Se non avessi fatto quella scelta, oggi tante persone non rimpiangerebbero il ministro Fioramonti. Direbbero che Fioramonti è stato uno dei tanti passati al Ministero, non ha fatto niente di particolare, ha galleggiato per qualche anno e poi se ne è andato a fare qualche altra cosa. E invece io volevo essere il Ministro che davvero combatteva per la scuola e prendeva a cuore la scuola. Questo significa essere un ministro in grado di imporsi contro il proprio governo, se prende delle scelte sbagliate. Quindi, alla sua domanda rispondo in questo modo: credo molto di più nel realizzare i progetti e portarli a termine, anche se questo significa creare dei progetti e operare delle scelte anche coraggiose e di rottura piuttosto che, come stiamo vedendo in questi mesi, cercare di galleggiare sperando che le cose vadano bene. In questi mesi non abbiamo visto una rivoluzione nel mondo della scuola, ma una replica del passato. E quindi la stagione Fioramonti si sarebbe comunque scontrata con una mentalità politica che non è cambiata. Alla fine, non mi sarei dimesso a dicembre ma a marzo o ad aprile, in piena pandemia magari, perché in forte contrasto con delle scelte che non condivido. Quindi per coerenza ho portato avanti la mia battaglia fino in fondo, senza alcun tipo di doppio gioco o di tatticismi che non fanno per me.

 

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Battaglia che, mi pare di capire, lei ritiene che non sia stata portata avanti dai ministri Manfredi e Azzolina?

In entrambi i casi no. Per quanto riguarda il Ministro Manfredi c’è stata discontinuità ma non particolarmente forte come invece nel caso della Ministra Azzolina, la cui linea è stata all’opposto rispetto alla mia. E questo mi dispiace per la scuola. Magari ha ragione lei. Speriamo, siamo tutti dalla sua parte. Speriamo che così si rimetta in piedi la scuola. Io qualche serio dubbio ce l’ho.

 

Un’ultima domanda: in un mondo in cui in pochissimi detengono la maggior parte della ricchezza, modelli come il suo rischiano di essere criticati come meramente utopici. Cosa distingue una visione politica di ampio respiro da una semplice utopia?

Continuo a dire che l’utopia è quella attuale: pensare di poter continuare a consumare e produrre senza porci il problema dei limiti planetari e delle risorse che utilizziamo e distruggiamo. Pensare che si possano continuare ad accumulare disuguaglianze senza che prima o poi qualcuno faccia scattare una rivoluzione. Questa mi sembra utopia. Nel mio caso invece dico esattamente l’opposto: la disuguaglianza sociale e i problemi di carattere ambientale sono due elementi talmente distruttivi dell’ordine globale che è fondamentale ridurli, investendo in sostegni al reddito universale (nel libro parlo di reddito di transizione), intervenire sui grandi capitali, sulle grandi multinazionali che fondamentalmente non pagano le tasse o ne pagano pochissime su dei profitti giganteschi. Ad esempio oggi assistiamo a una situazione per cui Jeff Bezos guadagna in un giorno quello che l’intero Paese è riuscito a ottenere dopo lunghi negoziati con l’Unione Europea. Di fronte a tutto questo, se non vogliamo autodistruggerci in questa polarizzazione gigantesca tra pochissimi che hanno troppo e tantissimi che hanno poco in un pianeta impoverito dobbiamo mettere in campo le politiche di cui parlo nel libro. Quindi la scelta utopica è quella di chi difende lo status quo, perché sta andando contro un muro. Mentre chi propone delle alternative in molti casi già dimostra di poterle realizzare, perché molti altri Paesi hanno già realizzato tante di queste cose. Si sta dicendo che è arrivato il momento di seguire altri indicatori, di cambiare prima di trovarci in una situazione in cui sarà talmente tardi che non potremo far altro che soffrirne le conseguenze.

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