Charlotte Brontë, un’energica figura di eroina vittoriana
«Una figura energica di donna». È così che Mario Praz definisce Charlotte Brontë, di cui oggi ricordiamo i duecento anni dalla nascita (Thornton, 21 aprile 1816 – Haworth, 31 marzo 1855) nel paragrafo a lei dedicato all’interno de La Letteratura Inglese, dai Romantici al Novecento (Bur, 1992). Un’energia, verosimilmente, sprigionata dalla fusione di fattori endogeni ed esogeni, combinata a un’indole appassionata e a un temperamento volitivo. La figlia del pastore anglicano di origine irlandese Patrick Prunty (che modificò il proprio patronimico in Brontë per onorare la memoria dell’ammiraglio Nelson, nominato da Ferdinando IV duca di Bronte, in Sicilia, per il sostegno dato contro la repubblica napoletana), sorella di Anne (1820-1849) ed Emily (1818-1848) ‒ altri due nomi la cui eco risuona ancora nel panorama della letteratura inglese ‒ è tuttora considerata la perfetta incarnazione di un’epoca, quella vittoriana, densa di affermazioni storiche e sociali, tra le quali la donna come soggetto letterario. Non che quest’ultima sia stata una facile conquista: nonostante l’intero XIX secolo abbia visto risplendere il talento femminile nelle arti narrative (da Jane Austen a George Eliot, passando per Elizabeth Gaskell, e, per l’appunto, le sorelle Brontë), pure i primi incontri col pubblico da parte di Charlotte e delle sue sorelle furono battezzati con pseudonimi maschili (Currer Bell per Charlotte, Ellis e Acton Bell rispettivamente per Emily e Anne). Ma non è difficile comprendere che l’attestazione di un ideale non trova spesso un immediato corrispettivo materiale…
La storia delle sorelle Brontë ha avuto e continua ad avere i contorni del mito, della leggenda, una di quelle leggende cantate dal vento selvaggio dello Yorkshire (la contea in cui crebbero insieme al padre dopo la prematura scomparsa della madre), in un’atmosfera adimensionale, dove al primitivismo dell’ambiente naturale fa da contrasto una peculiare curiosità intellettuale dominata dalle altalenanti vicende legate all’istruzione delle ragazze: la tragica esperienza della Clergy Daughter’ School di Cowan Bridge prima, e poi i precettori privati e il libero accesso alla Keighley Mechanics’ Institute Library, di cui il padre era socio fondatore, incrocio di esperienze opposte e perciò ancora più vitali.
Proprio il ruolo dell’istruzione, in particolar modo dell’istruzione femminile, è una delle tesi sociali affrontate dal romanzo di maggior successo (e di più ampia risonanza in termini di pubblico) di Charlotte: Jane Eyre (1847). La storia della giovane orfana, vittime delle angherie della zia Reed e da quest’ultima scacciata per essere confinata nel famigerato collegio di Lowood (un calco molto ben riuscito delle deprecabili condizioni di vita della Clergy Daughter’ School, dove trovarono la morte per tubercolosi le due sorelle maggiori, Maria ed Elizabeth), e infine assunta come istitutrice della piccola protetta di Mr Rochester, signore di Thornfield Hall, continua a tutt’oggi a incantare generazioni di lettori e non solo: sono ben otto le trasposizioni cinematografiche del romanzo, a partire dal 1910 sotto la direzione di Theodore Marston fino all’ultima versione di Cary Fukunaga (2011) con protagonisti Mia Wasikowska e Michael Fassbender, senza dimenticare la versione forse più fedele al testo letterario girata dal maestro Franco Zeffirelli nel 1996 con Charlotte Gainsbourg e William Hart.
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A incatenare la fantasia, di Jane Eyre, è soprattutto la straziante storia d’amore tra la semplice governante, completamente priva di attrattive, e il tenebroso padrone di Thornfield, l’ennesima variazione sul tema di Cenerentola e del Principe Azzurro che non ti aspetti, irrobustita dalla feroce forza di volontà dei due protagonisti, non semplici bozzetti ma personaggi temprati da un forte senso dell’onore e del dovere in cui è facile immedesimarsi.
A ulteriore conferma della potenza immaginifica di questo libro, possiamo qui brevemente richiamare la prova de La bambinaia francese, romanzo per ragazzi di Bianca Pitzorno (Mondadori, 2004), che rielabora la storia da una prospettiva pregressa rispetto all’originale, ovvero dal punto di vista della bambinaia della piccola Adèle, figlia dell’ex amante francese di Rochester e di cui egli è diventato tutore dopo la morte della madre; ciò che oggi si direbbe ‒ pur con tutta l’arbitrarietà del termine ‒ un prequel.
E tuttavia la bibliografia della Brontë non si ferma a Jane Eyre.
Forse, l’attribuzione a Shirley e Villette del titolo di capolavori dimenticati è più un attestato di stima che l’espressione di un giudizio obiettivo. Recentemente riportati alle stampe nel nostro Paese da Fazi (ma per quanto riguarda Villette è doveroso segnalare anche le edizioni di Newton Compton e Mondadori, in quest’ultimo caso col titolo de L’angelo della tempesta), introducono sfaccettature diverse dell’intelligenza creativa e della vita della loro autrice. Shirley (1849) presenta un più maturo assunto sociale nel narrare le vicende della ricca e tenace proprietaria terriera Shirley, dell’orfana priva di mezzi Caroline e di Robert Moore, industriale ostinato e inesorabile, sullo sfondo delle contraddizioni del processo di industrializzazione nel momento della sua affermazione come forza determinante all’interno della società inglese.
Villette (1853), forte del soggiorno, tra il 1842 e il 1843, a Bruxelles di Charlotte Brontë per imparare la lingua francese, è una cupa metafora della scissione tra ragione e sentimento, tra amore e dovere, tra leggerezza e rettitudine, e tuttavia soffre di un afflato moraleggiante che non rende più scorrevole la lettura delle peripezie di un’altra orfana povera di sostanze e di bellezza ma dotata di grande acume e pertinacia: Lucy Snowe.
Lo scorso 14 aprile, invece, è stato ristampato da Fazi, Il professore, romanzo d’esordio inizialmente rifiutato dagli editori del tempo per poi essere ripresentato postumo. Il protagonista è l’unico narratore maschile all’interno della bibliografia della Brontë e, allo stesso modo di Villette, l’abbrivio nasce dalla trasferta belga dell’autrice e dall’attrazione sviluppata nei confronti del suo insegnante, Monsieur Héger, un uomo sposato per una relazione impossibile.
La riproposizione, nell’avvicinarsi del secondo centenario dalla nascita della scrittrice, di testi dimenticati, scartati, comunque piegati all’imperituro successo della sua opera più famosa, Jane Eyre, non deve comunque essere vista come mera operazione di marketing editoriale. Piuttosto asseconda l’inestinguibile desiderio da parte del pubblico di approfondire la conoscenza di quella che, con ogni evenienza, può essere assunta come un’energica figura di eroina vittoriana quale è stata e sempre sarà Charlotte Brontë.
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