Cervelli in fuga, anche dalla cultura umanistica
Che sia a causa della crisi economica o per il miraggio della tecnica e dell’informatica, le statistiche parlano chiaro: gli studi umanistici sono in crisi. Il calo di iscritti, negli ultimi anni, nei percorsi di studio universitari, è stato costante un po’ in tutto il mondo cosiddetto “sviluppato”, tanto che qualche governo è pure corso ai ripari. E poco contano gli strali dei filosofi, come l’americana Marta Nussbaum, che nel suo Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (Il Mulino), tenta di convincere gli studenti che la formazione dovrà essere sempre meno utilitaristica e più disinteressata. Fatto sta che poi, almeno per il sentore comune, a trovar più facilmente lavoro son sempre gli altri.
Così stando agli ultimi dati del Miur, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, in Italia nell’ultimo anno le facoltà a indirizzo umanistico hanno visto scendere di quasi 100mila unità gli iscritti, dai 400mila studenti del periodo 2000/2011, ai 308mila attuali. Mentre crescono facoltà di ambito sanitario e scientifico. E come l’Italia vanno la Germania, la Francia, l’Inghilterra e la Spagna.
E non va meglio al di là dell’oceano. Un recente articolo pubblicato dal quotidiano «La Stampa», cita i casi di università prestigiose che hanno visto un crollo degli iscritti ai corsi di scienze umane e scienze sociali. A Stanford, ad esempio, dove il 45% dei docenti dei primi quattro anni di studio è impiegato in dipartimenti di studi umanistici, la percentuale di studenti sfiora appena il 15%. La colpa, almeno a quel che si legge, sarebbe tutta della crisi, col perdurare della quale i giovani tenderebbero a vedere la formazione universitaria sempre più legata a una professione tendendo a seguire percorsi di formazione incentrati sui settori dove l’offerta di lavoro è maggiore, e magari anche meglio remunerata.
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Lo stesso fenomeno di Stanford si registra ad Harvard, ad esempio, dove il calo nei piani di studio umanistici è stato del 20%. O alla Edinboro University della Pennsylvania, che ha annunciato la chiusura dei suoi programmi di tedesco, filosofia, lingue e letterature straniere. E a Princeton, costretta ad avviare programmi speciali per incentivare le iscrizioni agli studi umanistici.
Attenzione, non è detto che tutto ciò sia una male. Non fosse altro che per il buon vecchio adagio del “meglio pochi ma buoni”. Ma se altrove qualcosa si muove, come in qualche università americana o come in Francia, dove il governo Hollande, qualche mese fa, ha dichiarato di voler rilanciare gli studi umanistici, l’Italia, come sempre, prova ad andare contro corrente. Poche le iniziative tanto che paiono lasciate al caso o alla libera iniziativa. Ma in un Paese che ha avuto per anni un ministro dell’Economia (leggi Giulio Tremonti) convinto che “con la cultura non si mangia”, anche su questo c’è poco da stupirsi.
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