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“Cercasi scrittore” di Gabriel García Márquez

Gabriel García MárquezL’amore tra Gabriel García Márquez e il giornalismo è quello di tutta una vita e oltre, esattamente come ai tempi del colera: è nato con lui ma continuerà per generazioni, reincarnato nella sua Fundación para el Nuevo Periodismo Iberoamericano. L’idea dellaFundación è germogliata alla fine del 1993, durante un rigido inverno che ricordo bene, sulla sierra madrilena, quando lo scrittore ha voluto incontrare i responsabili e gli alunni della prestigiosa Scuola di Giornalismo del quotidiano «El País» e dell’università Autónoma di Madrid. Una riunione moltitudinaria, un fatto straordinario per lui che era così timido. Lì ha raccontato la sua idea di giornalismo come genere letterario, ma ha fatto soprattutto domande, nonostante odiasse le interviste e amasse le inchieste. Voleva orientarsi, capire se quello che aveva in mente per la Fundación avrebbe funzionato, gettare le basi di un futuro scambio di saperi tra Madrid e Cartagena che è ancora ben vivo.

Un anno dopo tornò alla scuola di «El País» per dirigere un laboratorio di giornalismo d’inchiesta. In quell’occasione disse, con la solita assenza di peli sulla lingua, che tra i presenti alcuni non sarebbero mai stati giornalisti perché di sicuro non erano narratori.

L’abbraccio amorosamente indissolubile tra narrazione e giornalismo di García Márquez ha partorito, a volte con atroce travaglio, una lunga collaborazione di articoli settimanali con «El País». Ne proponiamo uno del 1982, che riconcilia col proprio mestiere chiunque viva per e con la scrittura e conosca la frustrazione di misurarsi con gli obblighi, le scadenze, il triviale, le curve e i dossi della vita. La soluzione si trova scegliendosi una brava cuoca.

Cercasi scrittore

Mi chiedono spesso cosa mi farebbe più comodo in assoluto, e dico sempre la verità: «Uno scrittore». La battuta non è così insulsa come sembra. Se un giorno mi trovassi ad affrontare l’impegno ineludibile di scrivere un racconto di quindici cartelle entro sera, ricorrerei ai miei numerosi vecchi appunti e sarei sicuro di darlo alle stampe in tempo. Magari sarebbe un racconto pessimo, però manterrei fede all’impegno, che in sostanza è quello che ho voluto dire con questo esempio da incubo. In compenso, non sarei capace di scrivere un telegramma di auguri e nemmeno una lettera di condoglianze senza spappolarmi il fegato per una settimana. Per questi compiti odiosi, come per tanti altri della vita sociale, la maggior parte degli scrittori che conosco si affiderebbe alle buone prestazioni di altri scrittori. Una buona dimostrazione di senso dell’onore professionale portato quasi all’estremo è senza dubbio questo articolo che scrivo tutte le settimane e che in questi giorni di ottobre compie i suoi primi due anni di vita sociale. È venuto meno soltanto una volta in questo spazio, e non è stato per colpa mia, ma per un contrattempo dell’ultimo minuto nei sistemi di trasmissione. Lo scrivo ogni venerdì, dalle nove del mattino alle tre del pomeriggio, con la stessa volontà, la stessa consapevolezza, la stessa allegria e molto spesso con la stessa ispirazione che dovrei mettere nello scrivere un capolavoro. Quando non ho l’argomento ben definito la notte del giovedì vado a letto inquieto, ma l’esperienza mi ha insegnato che il dramma si risolverà da solo durante il sonno e che inizierà a fluire al mattino, fin dall’istante in cui mi siederò davanti alla macchina da scrivere. Tuttavia, ho quasi sempre in mente svariati argomenti in anticipo, e poco a poco raccolgo e metto in ordine i dati di diverse fonti e li verifico con molta cura, perché ho la sensazione che i lettori non siano così indulgenti verso i granchi che prendo come forse lo sarebbero verso l’altro scrittore che mi fa comodo. Il mio primo proposito con questi articoli è che ogni settimana insegnino qualcosa ai lettori comuni, che sono quelli che mi interessano, per quanto sembrino insegnamenti ovvi e magari puerili ai gran dottori chela sanno lunga. L’altro proposito –il più difficile – è che siano sempre scritti al meglio di come so fare senza l’aiuto di nessuno, infatti ho sempre creduto che la buona scrittura sia l’unica felicità che si basta da sola.

Questa servitù me la sono imposta perché sentivo che tra un romanzo e l’altro rimanevo senza scrivere per molto tempo, e poco a poco – come per chi gioca a baseball – mi si raffreddava il braccio. Più tardi, quella decisione di pratica artigianale è diventata un impegno preso con i lettori, e oggi è un labirinto di specchi da cui non riesco a uscire. A meno che non trovassi, ovviamente, uno scrittore provvidenziale che ne uscisse al posto mio. Temo però che sia ormai troppo tardi, infatti le uniche tre volte che ho preso la risoluta decisione di non scrivere più questi articoli me lo ha impedito, con il suo autoritarismo implacabile, il piccolo argentino che anch’io mi porto dentro.

La prima volta che l’ho deciso è stato quando ho cercato di scrivere il primo, dopo più di vent’anni che non lo facevo, e mi è servita una settimana da condannato alle galere per finirlo. La seconda volta è stato più di un anno fa, mentre trascorrevo qualche giorno di riposo con il generale Omar Torrijos nella base militare di Farallón, e la giornata era così diafana e l’oceano così pacifico che mettevano più voglia di navigare che di scrivere. «Mando un telegramma al direttore e gli dico che oggi niente articolo, e finita lì», ho pensato, con un sospiro di sollievo. Però non ho potuto pranzare per il peso che avevo sulla coscienza e, alle sei del pomeriggio, mi sono chiuso in stanza, ho scritto in un’ora e mezza la prima cosa che mi è venuta in mente e ho consegnato l’articolo a un aiutante del generale Torrijos perché lo spedisse via telex a Bogotà, con la richiesta che da lì lo mandassero a Madrid e in Messico. Ho saputo solo il giorno dopo che il generale Torrijos aveva dovuto dare ordine che fosse spedito su un aereo militare fino all’aeroporto di Panamá, e, da lì, in elicottero, al palazzo presidenziale, da dove mi fecero il favore di distribuire il testo attraverso un canale ufficiale.

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Gabriel García MárquezScrivo il mio romanzo tutti i giorni

L’ultima volta, sei mesi fa, quando ho scoperto al risveglio che avevo ormai maturo dentro il cuore il romanzo d’amore che tanto avevo desiderato scrivere e da così tanto tempo, e che non avevo altra alternativa tra non scriverlo mai o sprofondarci subito e a orario continuato. Tuttavia, nel momento della verità, non ho avuto abbastanza fegato da rinunciare alla mia cattività settimanale, e per la prima volta sto facendo qualcosa che mi è sempre sembrato impossibile: scrivo il mio romanzo tutti i giorni, lettera dopo lettera, con la stessa pazienza, e spero con la stessa buona sorte con cui le galline becchettano nei cortili, mentre sento ogni giorno più vicini i passi temibili da grossa bestia del prossimo venerdì. Ma eccomi qui di nuovo, come sempre, e spero per sempre.

Ho avuto il sospetto che ormai non sarei più scappato da questa gabbia dal pomeriggio in cui ho cominciato a scrivere questo articolo nella mia casa di Bogotà e l’ho finito il giorno dopo sotto la protezione diplomatica dell’ambasciata del Messico; ho continuato a sospettarlo all’ufficio Telegrafi dell’isola di Creta, un venerdì dello scorso luglio, quando sono riuscito a intendermi con l’impiegato di turno affinché trasmettesse il testo in castigliano. Ho continuato a sospettarlo a Montreal, quando ho dovuto comprare una macchina da scrivere d’emergenza perché il voltaggio della mia non era lo stesso dell’albergo. Ho smesso di avere sospetti per sempre solo due mesi fa, a Cuba, quando ho dovuto cambiare due volte le macchine da scrivere perché non ne volevano sapere di capirsi con me. Alla fine, me ne hanno portata una elettronica  dalle funzioni così avanzate che ho finito per scrivere di mio pugno su un quaderno a quadretti, come ai tempi felici e remoti delle elementari di Aracataca. Ogni volta che mi succedeva uno di questi contrattempi facevo appello con più ansietà al mio desiderio di avere qualcuno che si prendesse la briga di fare andar bene le mie cose: uno scrittore.

Nonostante tutto ciò, non ho mai sentito quella necessità in modo così intenso come un giorno di molti anni fa in cui ero andato a casa di Luis Alcoriza, in Messico, per lavorare con lui alla sceneggiatura di un film.

L’ho trovato avvilito alle dieci del mattino, perché la sua cuoca gli aveva chiesto il favore di scriverle una lettera per il direttore della Previdenza Sociale. Alcoriza, che è un eccellente scrittore, con una pratica quotidiana da sportello automatico, che era stato lo scrittore più intelligente delle prime sceneggiature di Luis Buñuel e, più tardi, dei propri film, aveva pensato che la lettera fosse questione di mezzora. Invece l’ho trovato, come un pazzo furioso, in mezzo a un mucchio di carte stracciate, dove non c’era scritto granché oltre a tutte le varianti possibili e immaginabili della formula iniziale: a mezzo della presente lettera, mi rivolgo a lei per... Ho cercato di aiutarlo, e tre ore dopo continuavamo a fare brutte copie e a stracciare carta, ormai mezzi ubriachi di gin con vermouth e ingolfati di chorizo spagnolo, ma senza essere riusciti ad andare oltre le prime frasi di circostanza. Non dimenticherò mai la faccia di compatimento della brava cuoca quando è venuta a prendersi la lettera alle tre del pomeriggio e le abbiamo detto senza pudore che non eravamo riusciti a scriverla. «Ma se è facilissimo», ci ha detto, in tutta la sua umiltà. «Stia a sentire». E subito dopo improvvisò la lettera con così tanta precisione e sicurezza che Luis Alcoriza fece fatica a scriverla a macchina con la stessa disinvoltura con cui lei la dettava. Quel giorno – così come ancora oggi – sono rimasto lì a pensare che forse quella donna, che invecchiava senza gloria nel limbo della cucina, era lo scrittore segreto che mi avrebbe fatto comodo in questa vita per essere un uomo felice.

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