Carver tra lettura e scrittura
Il mestiere di scrivere di Raymond Carver, a cura di W.L. Stull e R. Duranti, viene pubblicato in Italia nel 1997 da Giulio Einaudi editore.
Nonostante siano trascorsi due decenni da quella data, la scrittura rapida, liberatoria e vera di chi è ancora oggi considerato uno dei maestri della letteratura americana, apre un orizzonte sulla lettura come momento di riflessione sull’insegnamento della scrittura creativa. Il tema proposto in questa raccolta di esercizi – cinquanta in tutto –, articoli, saggi, confronti, note e la trascrizione di una lezione tenuta dallo scrittore il 14 marzo del 1983 presso l’Iowa Writers’ Workshop, viene sviscerato di pagina in pagina con quell’immediatezza che accende la mente e l’anima di chi legge.
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In quest’opera, dunque, non cerchiamo il Carver di Cattedrale, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, Vuoi star zitta per favore? o altro. Qui troviamo la testimonianza di un risultato, di una volontà, dell’amore per la scrittura:
«Le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste, con la punteggiatura nei posti giusti in modo che possano dire quello che devono dire nel modo migliore. Se le parole sono appesantite dall’emozione incontrollata dello scrittore, o se sono imprecise e inaccurate per qualche altro motivo – se sono, insomma, in qualche maniera sfocate – fatalmente gli occhi del lettore scivoleranno sopra di esse e non si sarà ottenuto un bel niente. Il senso artistico del lettore non sarà affatto stimolato».
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Carver riserva al lettore un posto d’onore. Lui sa che ogni «bravo scrittore ricrea il mondo secondo le proprie specificazioni» ma la griglia delle regole è universale e riconosciuta; da questa partono tutti gli scrittori, per poi allontanarsene creando la propria individualità sulla pagina. Il percorso verso la buona scrittura è lungo, a tratti sofferto, a volte misterioso, altre sembra un miracolo. Il percorso di Carver è costellato di quelli che lui chiama Fuochi ovvero circostanze, persone, situazioni forti e influenti quanto e forse più di una pagina di letteratura:
«Gli influssi sono forze – occasioni, personalità – irresistibili come maree. Non riesco a parlare di libri o di scrittori che possano avermi influenzato. Questo tipo di influsso, l’influsso letterario, è per me difficile da individuare con qualche certezza […]. Ad esempio, a lungo sono stato ammiratore dei romanzi e dei racconti di Ernest Hemingway. E ritengo inoltre che l’opera di Lawrence Durell sia unica e insuperata per quanto riguarda il linguaggio. Ovviamente, io non scrivo come Durell. Non mi viene da lui alcun «influsso». […] Confesso che l’influsso più grande sulla mia vita, e sulla mia scrittura, è venuto, direttamente o indirettamente, dai miei due figli. Sono nati prima che avessi vent’anni […].»
Durante i suoi anni di paternità, Carver vive «colpi e dolori» che destabilizzano il suo mondo fino al punto di fargli cambiare regole e direzione ogni giorno. Ma in uno di quei giorni difficili incontra il suo secondo «influsso»: John Gardner.
«Mi aiutò a capire quanto fosse importante dire esattamente quel che volevo dire e niente di più; non usare parole «letterarie» o un linguaggio «pseudopoetico». Cercò di spiegarmi la differenza che c’è, ad esempio, tra il dire «l’allodola vola sul prato» e «sul prato l’allodola vola». C’è un suono, e un senso, diverso, no? […] Mi insegnò a usare le contrazioni nella mia scrittura. Mi mostrò come dire ciò che volevo dire e a usare il minimo numero di parole per farlo. Mi fece capire che tutto, assolutamente tutto, ha importanza in un racconto. È importante sapere dove mettere le virgole e i punti. Per questo, per quello, perché mi diede la chiave del suo ufficio in modo che potessi avere un posto per scrivere nei fine settimana, per avere sopportato la mia sfacciataggine e la mia generale mancanza di senso, gli sarò sempre grato. Lui è stato un influsso.»
E dopo di lui, Gordon Lish, un altro “influsso” determinante come l’indispensabile fuoco che divampa in chi scrive. Lo conosce e apprezza mentre lavora sul racconto I vicini che lui, da editor instancabile e controverso quale si sarebbe dimostrato, cambia in Vicini. La vita letteraria di Raymond, nel bene o nel male, subisce una metamorfosi dopo quell’incontro.
Così, sotto il cielo di questi tre influssi, nasce Carver, la sua scrittura, il suo metodo, il suo insegnamento. Alla base di tutto egli pone la comunicazione con il lettore che, in quanto tale, ascolta nelle parole, siano esse scritte in prosa o in versi, i pensieri e le preoccupazioni più profonde di chi le ha prodotte. La speranza di Raymond è quella di suscitare in lui le stesse sensazioni di chi le ha provate per primo; di poter vivere all’unisono una corrispondenza d’intuizioni emotive. Sono le “emozioni concrete” che troviamo, ad esempio, quando leggiamo Per Tess, la poesia che Carver dedicò nel marzo dell’84 alla moglie Tess Gallagher, poetessa e scrittrice di racconti.
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L’obiettivo che Carver si pone, comunicare con il lettore, non si raggiunge solo scrivendo. A tal proposito ricorre nell’opera Il mestiere di scrivere una citazione di Maupassant: «Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto»:
«Era proprio la cosa che volevo fare con i miei racconti: mettere in fila le parole giuste, le immagini precise, ma anche la punteggiatura esatta e appropriata per far sì che il lettore fosse attratto e coinvolto all’interno del racconto fino a essere incapace di distogliere lo sguardo dal testo, a meno che non gli andasse a fuoco la casa attorno. Chiedere alle parole di assumere la forza delle azioni magari è un desiderio vano, ma è chiaramente un desiderio proprio di uno scrittore alle prime armi. Eppure, l’idea di scrivere in modo chiaro e con sufficiente autorità da invogliare e trattenere il lettore mi è rimasta. È ancora oggi uno dei miei obiettivi primari».
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Ray Carver muore il 2 agosto del 1988, a soli cinquant’anni. La sua scrittura è diventata una tendenza letteraria.
Per la prima foto, copyright: Luca Laurence.
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