Carlo D’Amicis e Nicola Lagioia – BINARI (18)
Fiabe moderne: “Il grande cacciatore” e “Fine della violenza”
Sia Il grande cacciatore di Carlo D’Amicis che Fine della violenza di Nicola Lagioia sono stati pubblicati nella pregevolissima collana ZOO – Scritture animali diretta da Giorgio Vasta e Dario Voltolini per la palermitana :duepunti edizioni. Sia D’Amicis che Lagioia sono di origini pugliesi, ma vivono a Roma dove lavorano nel mondo dei libri: redattore di Fahrenheit su Radio 3 il primo, editor della minimum fax il secondo. Sia l’uno che l’altro si servono nel loro racconto di un quadrupede domestico per definire i contorni della solitudine umana e (provare a) ristabilire la reciprocità tra i bipedi della specie homo sapiens.
Narrazione breve intensa e disperata quella del Grande cacciatore di D’Amicis, in cui lei è infermiera, lui appassionato di caccia, l’altra una playmate vicina di casa: un triangolo amoroso, dunque, in cui si susseguono umorismo e tragicità e che si allarga sino a includere gli alieni (!) e un bastardino. Saranno Essi (gli extraterrestri in cui lui e l’altra credono fermamente) il primo legame tra la barbie e “il grande cacciatore” fedifrago; il loro è un legame fondato sul vuoto di senso: come tutti gli altri, del resto, sembra suggerirci l’autore, tanto che la narratrice (lei) è consapevole di amare il proprio lavoro perché negli ospedali i ruoli e i rapporti sono ben definiti, e soprattutto è richiesta una precisione razionale e priva di ogni coinvolgimento emotivo. Gli uomini hanno maturato la capacità di amarsi senza amore, rispettarsi senza rispetto, accontentarsi dell’involucro dei propri simili; i cani no: donano al proprio padrone se stessi, interamente e senza riserve.
Tu non hai cani, mi dissi senza possibilità di replica, osservandomi allo specchio.
Comunque sia, il cane abbaiò tutta la notte, e alle sette meno un quarto lo trovai che mi aspettava sotto i citofoni.
«Sparisci», gli intimai. Come se quello fosse stato da sempre il suo nome, si alzò stiracchiandosi, sbadigliò, fece qualche goccia contro il muro e poi, zoppicando come e peggio della sera precedente, ricominciò a venirmi dietro.
(Carlo D’Amicis, Il grande cacciatore, :duepunti edizioni)
Ci riconduce negli anni ’90 l’inconsueto racconto natalizio di Lagioia, Fine della violenza: un bulletto vive nel degrado della Tangenziale est di Roma e assiste alla reiterazione della violenza che ha sotto gli occhi nel quartiere anche tra le mura domestiche. Da quando suo padre ha perso il lavoro è intrattabile; fortuna che il traffico copre i suoi isterismi, così come le lamentele di madre e sorella. Sarà un batuffolo di pelo grigio, che anche in quel contesto mantiene il suo serafico equilibrio felino, a suggerire al ragazzo che l’aggressività non è dovuta, né scontata, che una convivenza discreta e rispettosa è possibile – anche se tutto intorno è squallore.
Non che un gatto sconti la sua eleganza e le famose sette vite con l’anaffettività di cui lo accusano gli sciocchi e gli impazienti. L’amore e le effusioni che lo legano agli altri esseri viventi, semplicemente, non seguono il sissignore del soldato e neanche la premurosa santimoniosità del portaborse. Pretendono rispetto, tatto, discrezione, seguono i ritmi di una lenta sapiente opera di avvicinamento che ha qualcosa della seduzione amorosa o del passaggio della luna sulle piramidi di quattromila anni fa.
(Nicola Lagioia, La fine della violenza, :duepunti edizioni)
Fiabe moderne, appunto, in cui agli animali è affidato il compito di farci riscoprire la nostra “umanità”, o per lo meno di rendere tollerabile quella frustrante inferiorità che ci vede tanto soli e stolti quanto potenzialmente sociali e sapiens.
Una chiosa finale: un’avvertenza in seconda pagina si premura di informarci che la copertina è stampata su “carta 100% riciclata e fatta a mano da escrementi di elefante” (!); ciononostante vi assicuro che non puzza…
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