“Canto della pianura” di Kent Haruf, lo straordinario racconto del quotidiano
«Il termine inglese Plainsong, che dà il titolo a questo romanzo, significa “canto piano”. Nel contesto di questo romanzo, invoca un’immagine più che un significato: “canto della pianura”». Si apre così, con questa precisazione stilistica, Canto della pianura, il secondo volume della Trilogia della pianura (pubblicato da NN editore), l’opera messa in piedi da Kent Haruf e ambientata a Holt, una cittadina del Colorado dove si alternano melanconicamente e senza alcun intreccio tra loro le storie di persone comuni che portano alla luce le infinite sfumature delle relazioni umane.
Se in Benedizione avevamo assistito a un ritmo più serrato e asettico dei dialoghi e dello sviluppo della trama sorretta perennemente dalla figura di Dad Lewis, padre di famiglia malato di cancro, in questo secondo libro pare che Haruf abbia aperto le finestre per dare aria a una stanza e si sia abbandonato a descrizioni più o meno prolisse in particolar modo dei paesaggi e dei personaggi, ampliando la visuale del lettore e allargando i confini delle vicende.
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Gli stessi personaggi poi sono molteplici e ancor più cesellati: Victoria Rubideaux è una diciassettenne che resta incinta per una sorta di incidente con un ragazzo dal carattere instabile durante uno squallido rapporto sessuale dentro un’anonima automobile e si ritrova a dover chiedere aiuto a una sua insegnante, Maggie Jones, e successivamente a condividere la sua gestazione e il parto con due fratelli, i McPheron, adulti, dai capelli ingrigiti e avanti con l’età che si occupano di cavalli, mucche e giumente anch’esse in procinto di partorire.
La sgradevolezza e l’aridità della vicenda di Victoria si scontra con l’amorevole cura che i fratelli si prendono di lei e col parallelismo di una nuova vita che nasce sia nell’ambito animale sia in quello umano. L’invalicabile muro che ogni giorno separa i fratelli dalla giovanissima donna riuscirà a essere anche abbattuto annullando le distanze anagrafiche. E poi c’è Tom Guthrie, un insegnante di liceo che da solo si occupa dei due figli, difendendoli oltremisura dai compagni di classe sbruffoni, mentre la madre passa la sua esistenza chiusa in una stanza buia.
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Ormai nota è la letteratura di Haruf, dove tra il bigottismo e la malinconia, le vite della sua Trilogia sono così ordinarie da essere rese straordinarie grazie al potere della sua narrazione, così delicata e soave, così sottile e quotidiana da arrivare al lettore come uno specchio della propria esistenza.
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E in un contesto così emozionale, non possono mancare le scene crude di quelle giumente partorienti o di quel cavallo morente che si contorce dal dolore e sul quale, una volta spirato, i fratelli McPheron applicano una autopsia che Fabio Cremonesi, il traduttore dell’opera, racconta essere stata tradotta con “inquietante esattezza”. Anche nel passaggio linguistico, l’opera di Haruf non perde dunque i suoi connotati di durezza e arida purezza, tenendo vivo il messaggio reale e non mascherato dalla fantasia di cui spesso fa uso lo scrittore che per mestiere deve inventare.
E poi, un giorno di maggio, per il Memorial Day, ecco i protagonisti quasi tutti riuniti. Haruf li pone sullo stesso palcoscenico dopo averne disegnato la parabola individuale, e ciò dà il senso della forza dell’unione, della speranza per l’avvenire lungo o corto che sia. Sempre con il caldo e «la brezza fresca che soffia sui loro volti» a fare da sfondo.
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D’altronde quella di Holt è la stessa pianura tratteggiata nei cuori dei protagonisti, così nuda, piatta, informe e lunare. Come lo sono più o meno le vite dei protagonisti di questo secondo capitolo di un romanzo che fa della malinconia il fiore all’occhiello ma della suggestione il messaggio più vasto che possa arrivare al lettore. Canto della pianura, un canto quotidiano di tutti noi.
Per la prima foto, copyright: Kait Herzog.
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