Campiello Opera Prima 2018 – Intervista a Valerio Valentini
Gli 80 di Camporammaglia, edito per Laterza, non è una metafora numerica inventata da Valerio Valentini per dare il titolo alla sua opera, ma è una possibile realtà di un qualsiasi paese come ce ne sono tanti nell’entroterra abruzzese, a 800 metri d’altezza, dove le distanze si contano in minuti. Sembra che si tratti di un mondo e di un tempo lontano, confinato nella notte dei tempi, e invece certi punti di riferimento permettono di cogliere la precisa cronologia. La narrazione si dispiega con voce corale, in cui storie di coraggio e di desolazione si intrecciano per raccontare un paese e i cambiamenti che è costretto affrontare.
In occasione dell’assegnazione del Premio Campiello Opera Prima, l’autore ha condiviso con noi alcuni retroscena del suo romanzo.
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Camporammaglia, questo paesino immaginario incastonato nell’Appennino, è stato interpretato dalla critica da prospettive diverse, quasi sempre visto comunque come simbolo o come risposta all’idealizzazione del vivere in montagna. Vorrei iniziare chiedendo a lei direttamente cos’è Camporammaglia per lo scrittore Valerio Valentini?
Il paesino è immaginario per quanto riguarda il nome. Geograficamente, non esiste nessun paese che si chiami così. Ciononostante, esiste come insieme di vicissitudini, di situazioni e di aneddoti che si mescolano assieme per creare una realtà, questa sì esistente.
Sottolineo che non c’è l’idealizzazione della vita in montagna, anzi le descrizioni tendono a cogliere i tratti più realistici della vita dei contadini.
Nel libro lei scrive: «Vivere in un paese come Camporammaglia ti insegna ben presto a farti un vanto della tua alterità rispetto al resto del mondo civile.» In cosa consiste quest’alterità?
L’idea era quella di sottolineare il fatto che chi vive lì tende a rivendicare con orgoglio esasperato la propria origine. E questo non perché si è inconsapevoli dei problemi che si annidano in queste origini, ma piuttosto come un senso di difesa. Come una reazione verso l’incapacità di nascondere la propria stranezza, e quindi ci si fa un vanto di essa. Uno dei personaggi che ben incarna questo dettaglio ha anche un’età in cui, per natura, vive una certa ansia dell’identità. Infatti, va in città per frequentare il liceo, e questa esperienza lo costringe a confrontarsi coi coetanei. E quando scopre di non poter celare le sue origini, ecco che scaturisce il vanto come, appunto, forma di difesa.
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Ottanta persone in un paesino abbastanza isolato, con gli stessi cognomi che si ripetono. Al di là degli episodi descritti nel romanzo, cosa c’è di positivo e cosa di negativo in una comunità come questa?
È una domanda alla quale faccio sempre fatica a rispondere e questo perché a ogni pro, per così dire, si collega un contro. Credo che il desiderio stesso di scrivere il libro sia nato da questa stessa domanda. La narrazione non raggiunge una risposta ultima, in effetti, e nemmeno io la ho. Mi è difficile vedere le cose in bianco e nero. Se, tuttavia, dovessi stilare un breve elenco di elementi positivi, la prima cosa che mi viene in mente è che nel paesino isolato vi è un recupero dell’essenzialità, ovvero la capacità di scindere in modo naturale ciò che è utile da ciò che è superfluo. Accanto a questa, aggiungo la solidarietà spontanea. Di contro, invece, ci sono le gelosie, le invidie, che nascono da una vita vissuta l’uno a fianco dell’altro.
Mi perdoni la domanda a bruciapelo: cos’è il cambiamento e cosa rappresenta per una comunità come questa?
Il cambiamento, positivo o negativo che sia, è sempre un trauma. Per tutti. Il cambiamento ci costringe a fare i conti con ciò che pensavamo immutabile. È il processo in cui vengono meno le certezze e ci si mette in discussione. Se il cambiamento avviene in una comunità molto affezionata alle leggi ataviche, i suoi effetti sono ancor più evidenti e le reazioni di un eterno presente spezzato sono ancor più clamorose.
Nel 2009 arriva il terremoto. Molti critici lo hanno interpretato come l’evento che rompe gli argini e fa entrare la storia a Camporammaglia. Eppure Camporammaglia non vive fermo nella sua fissità, anzi aveva già lasciato entrare alcuni cambiamenti (come ad esempio la televisione) anche se con tempi più lunghi rispetto a quanto succede altrove. Cosa significa il terremoto per un paesino come quello che lei descrive? Quali conseguenze comporta nella vita di comunità e in che modo la trasforma?
Il terremoto ha prodotto molti cambiamenti, alcuni dei quali, ovviamente, nell’immediato, come l’allestimento delle tendopoli. In questa realtà, nasce una vicinanza esasperata che acutizza i conflitti e i litigi. A lungo termine, invece si è avuto un cambiamento edilizio e urbanistico. Alla vicinanza assoluta delle tendopoli si è sostituita la lontananza, la creazione di nuove strade e di confini dilatati.
Ai fini della socializzazione, le vicinanze hanno senso solo se sono assolute. Se per raggiungere il mio vicino e bermi un caffè assieme a lui devo prendere la macchina, è molto probabile che io percorra altri dieci chilometri e il caffè lo prenda al bar del supermercato. In questa logica semplificata, la città appare più vicina. Detto altrimenti, il terremoto ha dilatato i confini e ha sfilacciato la compattezza delle relazioni sociali.
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Molti paesini dell’Appennino sono stati abbandonati, alcuni dopo i vari eventi sismici o semplicemente per mancanza di popolazione. Di questi per alcuni sono state realizzate o sono in corso azioni di recupero, come l’acquisto da parte di investitori stranieri. Come vede queste trasformazioni?
Il terremoto ha accelerato un processo già in atto. Oggi, vivere in quei posti è difficile e il ripopolamento, sebbene tentato molte volte, non ha dato buoni risultati. Quello che succede è principalmente una trasformazione dei vecchi borghi in villaggi turistici o in case vacanza per i facoltosi abitanti della città. Sono dei luoghi fuori dal tempo, delle bomboniere. Penso a Santo Stefano di Sessanio, per esempio. Questo, ovviamente, non è ripopolare le montagne. Sono piuttosto degli esperimenti, per me interessanti da osservare. Gli investitori stranieri tendono a ristrutturare in modo perfetto, anche fin troppo, spinti dalle loro passioni. Se abbia senso il recupero oppure no, personalmente non lo so, di certo tale processo dovrebbe nascere da un’esigenza della popolazione e non come un capriccio, seppur comprensibile. Ce lo dirà il tempo se sia stato utile o meno.
Come si sta preparando o si preparerà in vista della serata finale del Premio Campiello?
Con grande emozione. Ho l’abitudine di rimandare il momento di affrontare gli eventi, dal punto di vista emotivo, se non in prossimità del loro arrivo. Manca un’estate intera fino alla serata finale, per cui evito di pensarci troppo. Comunque, è la prima volta che mi trovo in un contesto del genere, e sono molto soddisfatto e un po’ in ansia.
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