Campi di concentramento nazisti, ecco cosa vi accadeva
Cosa accadeva nei campi di concentramento nazisti? È difficile dare una risposta senza che la commozione si insinui tra le pieghe dei nostri discorsi.
Ci viene in aiuto KL Storia dei campi di concentramento nazisti di Nikolaus Wachsmann, edito questo mese da Mondadori, nella traduzione di Sara Crimi, Francesco Peri e Laura Tasso; libro nel quale il docente di Storia moderna europea presso il College di Birkbeck, University of London, racconta la genesi, l’organizzazione, la struttura dei campi di concentramento, soffermandosi anche su quanto effettivamente accaduto al loro interno.
Riportiamo, qui di seguito, un estratto dal libro, soffermandoci sul campo di Dachau e sul trattamento riservato ai disabili.
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Dachau, 29 aprile 1945. Nelle prime ore del pomeriggio, le truppe americane – parte delle forze alleate che percorrono la Germania spazzando via gli ultimi resti del Terzo Reich – si avvicinano a un treno abbandonato su un binario, ai bordi di un disordinato complesso di edifici delle SS, nei pressi di Monaco. Quando lo raggiungono, fanno una scoperta terribile: i carri merci sono pieni di cadaveri, ben più di 2000 uomini, donne e anche bambini. Un groviglio inestricabile di membra scarnificate e contorte, paglia e stracci, coperto di sporcizia, sangue ed escrementi. Diversi soldati, terrei in viso, si girano dall’altra parte piangendo o vomitando. «Non potevamo far altro che stringere i pugni, e questo ci dava il voltastomaco, ci faceva diventare matti» scriverà un ufficiale il giorno successivo. Quando, nel corso del pomeriggio, i soldati ancora sconvolti si addentrano nel complesso e raggiungono il settore dei prigionieri, si imbattono in 32.000 sopravvissuti di diverse etnie, fedi religiose e convinzioni politiche, provenienti da circa trenta nazioni europee. Mentre incespicano barcollando verso i loro salvatori, alcuni sembrano più morti che vivi, molti altri giacciono in baracche sovraffollate, infestate dallo sporco e dalle malattie. Ovunque si girino, i soldati vedono corpi privi di vita, riversi fra le baracche, gettati nei canali di scolo, impilati come legname vicino al crematorio del campo. Quanto ai responsabili di quel massacro, quasi tutti gli ufficiali delle SS sono fuggiti da tempo, lasciando dietro di sé un manipolo raffazzonato di un paio di centinaia di guardie. Le immagini di quell’incubo fecero ben presto il giro del mondo e si impressero in modo indelebile nella memoria collettiva. A oggi, i campi di concentramento come Dachau vengono percepiti soprattutto attraverso la lente dei liberatori, con le immagini fin troppo familiari di trincee piene di corpi, montagne di cadaveri e sopravvissuti scheletrici che fissano l’obiettivo della fotocamera. Per quanto potenti siano, però, queste immagini non rivelano tutta la storia di Dachau, che era molto più lunga e aveva raggiunto il suo ultimo girone infernale solo poco tempo prima, durante le convulsioni finali della seconda guerra mondiale.
Dachau, 31 agosto 1939. I prigionieri si alzano prima dell’alba, come ogni mattina. Nessuno di loro immagina che il giorno dopo scoppierà la guerra, quindi seguono la consueta routine: dopo le frenetiche operazioni preliminari – sgomitare nelle latrine, divorare un pezzo di pane e pulire le baracche – marciano in rigorosa formazione militare verso il piazzale dell’appello. Quasi 4000 uomini, con i capelli cortissimi o rasati a zero, stanno sull’attenti nelle loro uniformi a righe, affrontando ansiosamente la prospettiva di un’altra giornata di lavoro coatto. A eccezione di un gruppo di cechi, quasi tutti i detenuti sono tedeschi o austriaci, sebbene la lingua sia spesso la sola cosa che hanno in comune; i triangoli colorati sulle uniformi li identificano come prigionieri politici, asociali, criminali, omosessuali, testimoni di Geova o ebrei. Dietro le schiere di prigionieri si ergono file di baracche a un solo piano: 34 edifici appositamente costruiti, ciascuno lungo circa 100 metri, con pavimenti lucidi e le cuccette accuratamente rifatte. La fuga è quasi impossibile: il recinto rettangolare dei prigionieri, che misura 582 metri per 277, è circondato da un fossato e da un muro di cemento, con torrette di sorveglianza, mitragliatrici, filo spinato ed elettrificato. Al di là di quest’area c’è un’enorme zona occupata dalle SS con oltre 220 edifici, fra cui magazzini, officine, abitazioni e persino una piscina. Qui sono di stanza le circa 3000 SS del campo, che formano un’unità volontaria con un proprio codice di comportamento, il cui compito è far passare i prigionieri attraverso una ben rodata routine di abusi e violenze. Comunque, i decessi sono pochi e sporadici, non più di quattro nell’agosto 1939; fino a quel momento, le SS non avevano dunque un’impellente necessità di costruire un proprio crematorio. Questa era ancora la forma più controllata del terrore praticato dalle SS dei campi: tutt’altra cosa rispetto al caos letale degli ultimi giorni della primavera del 1945 e anche agli sgangherati esordi di Dachau, nella primavera del 1933.
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Dachau, 22 marzo 1933. Il primo giorno all’interno del campo sta volgendo al termine. È una serata fredda. Meno di due mesi prima, la nomina di Adolf Hitler a cancelliere ha dato il via alla trasformazione della Germania in dittatura nazista. I nuovi prigionieri (che indossano ancora i propri vestiti) stanno cenando a pane, salsiccia e tè nell’ex ufficio di una fabbrica di munizioni ormai dismessa. Nei giorni precedenti, l’edificio è stato convertito in fretta e furia in un campo, isolato dal resto della fabbrica deserta con le sue strutture fatiscenti, le fondamenta di cemento distrutte e le strade dissestate. In tutto non ci sono più di 100-120 prigionieri politici, per la maggior parte comunisti di Monaco. Quando, poco tempo addietro, questi uomini erano arrivati a bordo di camion scoperti, le guardie – una guarnigione di 54 uomini – avevano annunciato che i prigionieri sarebbero stati tenuti in «detenzione preventiva», un termine sconosciuto a molti tedeschi. Di qualsiasi cosa si trattasse, sembrava sopportabile: le guardie non erano paramilitari nazisti, ma poliziotti affabili, che chiacchieravano con i prigionieri, distribuivano sigarette e dormivano persino nello stesso edificio. Il giorno successivo, il prigioniero Erwin Kahn scrisse una lunga lettera alla moglie raccontandole che a Dachau andava tutto bene. Il cibo era buono e venivano trattati bene, ma lui non vedeva l’ora di essere rilasciato. «Sono solo curioso di capire quanto durerà questa faccenda.» Qualche settimana più tardi, Kahn era morto, fucilato dalle SS. Fu tra i primi dei quasi 40.000 detenuti di Dachau morti fra la primavera del 1933 e quella del 1945.
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Uccidere i deboli
Il programma nazista di eutanasia aveva preso forma poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, quando Hitler aveva autorizzato un progetto segreto per uccidere i disabili. I responsabili erano il medico personale di Hitler, il dottor Karl Brandt, e Philipp Bouhler, capo della Cancelleria del Führer. Personaggio marginale della gerarchia nazista, Bouhler considerò l’omicidio di massa una possibilità di migliorare la propria posizione, e ne affidò la gestione quotidiana a Viktor Brack, il suo braccio destro. Ben presto fu creata un’organizzazione efficiente, che operava dal quartier generale di Berlino, una villa al numero 4 di Tiergartenstrasse (da qui il nome in codice del programma eutanasia, Aktion T-4). Fu richiesto agli ospedali psichiatrici tedeschi di compilare moduli speciali sui pazienti, con i dettagli della loro condizione. Questi moduli venivano poi inviati a medici appositamente assunti, come Mennecke e Steinmeyer, che prendevano una prima decisione sul destino dei pazienti, poi la pratica veniva sbrigativamente riesaminata da un medico anziano come il professor Heyde. Il loro principale interesse era la capacità di lavoro dei pazienti; chiunque fosse ritenuto improduttivo sarebbe stato ucciso. Ma come?
Gli assassini presero in considerazione diversi metodi. Inizialmente pensarono a iniezioni letali, ma questa scelta fu ben presto abbandonata a favore di un approccio diverso. Venne presa la fatale decisione, a quanto pare con l’approvazione di Hitler, di uccidere i disabili con il gas asfissiante. Tra la fine del 1939 e l’inizio del 1940 le SS organizzarono un primo tentativo con il gas in un ex carcere fuori Berlino. Parecchi disabili furono rinchiusi in una stanza sigillata, poi riempita di monossido di carbonio: morirono sotto lo sguardo attento dei maggiori responsabili del programma eutanasia. Poco tempo dopo, nuovo personale reclutato dal T-4 gestiva diversi centri per le uccisioni (in gran parte manicomi riconvertiti), ciascuno dei quali aveva una propria camera a gas. Le eliminazioni di massa con il gas in tutta la Germania ebbero fine solo nell’estate del 1941 per ordine di Hitler, il quale temeva sempre più il giudizio dell’opinione pubblica riguardo a queste uccisioni, che ormai erano un segreto di Pulcinella (anche se proseguirono in modo più discreto in manicomi locali). All’epoca, fra le 70.000 e le 80.000 persone erano state uccise nelle camere a gas – ritenute dallo storico Henry Friedlander un’invenzione esclusiva della Germania nazista –, che sarebbero divenute un tassello centrale nel genocidio degli ebrei europei. Le prime vittime, tuttavia, furono i pazienti degli ospedali psichiatrici, ben presto seguiti dai prigionieri dei campi di concentramento.
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