Cambiare il volto di una casa editrice. L’esperimento di Giulio Perrone Editore
Anche le case editrici spesso cambiano volto e lo fanno a partire proprio dalla parte grafica, e non solo cambiando le cover dei libri. Difatti anche dietro a un cambiamento all’apparenza così piccolo c’è il desiderio più ampio di un editore di rinnovare la propria immagine, anche alla luce di cambiamenti editoriali. È stato, proprio in questo periodo, il caso di Giulio Perrone Editore che ha affidato a Maurizio Ceccato, grafico e art director, il compito di realizzare un restyaling grafico della casa editrice.
Di questo e dell’importanza dell’aspetto grafico in editoria abbiamo parlato proprio con Maurizio Ceccato.
Di recente ha lavorato al restyling grafico di Giulio Perrone editore, lasciandosi ispirare dal design di inizio secolo Novecento, dalla tipografia a tre colori e dalla carta non plastificata, nuda e ruvida. Perché ha scelto proprio questi tre elementi?
Per dare un'identità a una casa editrice come a qualsiasi altra azienda che produce oggetti quadridimensionali serve un posizionamento, come dicono i pubblicitari, una carta d'identità. Il punto di partenza per il design che diviene brand e forma di auto-pubblicità, sono per me le iconografie bidimensionali oramai accantonate ma basiche come numeri primi: il Bauhaus, Rodchenko, Lustig e tutto il primo Novecento ma anche William Morris.
Tipografia semplice, da tavolo, come si usava dire fino a qualche decennio fa, ortogonale e con tre colori: rosso, nero e bianco che oggi, con i nuovi strumenti digitali, possiamo arricchire e manipolare come dei dj che campionano decine di library con le proprie consolle.
Come si lavora al restyling grafico di una casa editrice? Conta più la sua tradizione o la voglia di innovare?
La carta è il nostro tepee d'incontro. Qui le parole e le immagini fumano il calumet della pace senza riserve.
Abbiamo una tavolozza infinita da cui attingere senza mai replicarci. Infiniti spazi rettangolari da riempire e svuotare.
Non credo sia più il tempo dell'innovazione ma della riconciliazione con una tradizione tipografica che per quanto solida può essere riaggiornata o, come fosse un ready-made di duchampiana memoria, riformulata. In ogni caso cerco di stare alla giusta distanza dalla tradizione che abbiamo imparato a codificare come vicina a un dogma o alla perfezione (che non esiste): «L'uovo ha una forma perfetta, benché sia fatto col culo», diceva Bruno Munari.
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Lei si occupa di grafica editoriale da molti anni. Nel corso del tempo com’è cambiato l’atteggiamento degli editori verso la veste grafica del prodotto libro?
Dal 1996, ovvero da quando ho affiancato al mio lavoro di illustratore per giornali ed editori, quello di grafico e art director, almeno ogni lustro sembra un secolo fuori dal mondo editoriale. La tecnologia ha fatto fare salti in avanti enormi all'interno delle redazioni grafiche e non solo di editori periodici e librari. Per quello che riguarda il libro, che resiste nella sua forma da quasi seicento anni, è cambiato poco o nulla. Sono forse di più le involuzioni estetiche. Di solito i più coraggiosi da questo punto di vista sono gli anglosassoni, i nordamericani e gli scandinavi, oggi. Ieri (fino a tutti gli anni Settanta) c'era solo l'Italia.
E com’è cambiato nel tempo il suo approccio un libro quando le viene chiesto di progettarne la copertina?
Nel tempo sono cambiato anch'io. Dai progetti grafici con un impianto austero come quelli che ho ideato per Fazi e Arcana, passando per Elliot e Hacca sono approdato negli ultimi anni a una ricerca meno rassicurante come quella costruita per Giulio Perrone Editore.
Il mio approccio con gli editori, dal punto di vista della maieutica è pressoché rimasto identico e cerco di portare i miei interlocutori a immaginare come la grafica non sia solo il riempitivo di una scatola rettangolare ma il linguaggio primario con il quale l'editore parla, attraverso i propri autori, ai fruitori-lettori.
Credo che l'approccio giusto sia un equilibrio e una consapevolezza coscienziosa, parafrasando Albe Steiner, ogni volta che mettiamo un segno su un foglio bianco, abbiamo una grande responsabilità, anche politica.
Spesso alcuni lettori confessano di scegliere un libro anche sulla base della copertina o dell’aspetto grafico. Quanto possono contare questi elementi nelle vendite di un libro?
Credo che sia frutto sempre di un atteggiamento personale e legato alla propria cultura visiva. Stefan Sagmeister, noto designer austriaco, ha un'importante collezione di vinili e ha dichiarato: «Prendo tutte le mie decisioni sull’acquisto dei dischi basandomi sulle copertine e finisco con pochissima cattiva musica. I musicisti che si preoccupano abbastanza di avere una cover davvero fantastica hanno altrettanto a cuore la musica». Sono abbastanza d'accordo ma non è un'equazione e ci sono troppe eccezioni, soprattutto nel mondo dei libri.
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Chiudiamo con un gioco: ci dice tre libri sui quali avrebbe desiderato lavorare e perché?
Direi che la sfida è quella di non essere mai soddisfatti del proprio lavoro e tradurre le difficoltà future con un buon archivio di artigianalità che non significa mestiere in senso manierista.
Stephen King, Shining. Rivestirlo senza usare il vessillo del nome è una di quelle utopie che mi intrigherebbe affrontare.
Se esistessero dei racconti di Richard Matheson tratti da Twilight Zone e qualcuno ne facesse una raccolta, mi confronterei con un gigante dello sci-fi desaturandolo di quell'aura che lo ha intrappolato nel genere.
Infine la Divina Commedia. Perché spingerei fuori dai confini della tradizione iconografica un libro-verbo con il quale tutti, prima o poi, hanno avuto il piacere-dovere di confrontarsi nella lettura, a livello mondiale.
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