“Cadrò, sognando di volare”, ciclismo, sogni e sfide impossibili raccontati da Fabio Genovesi
Cadrò, sognando di volare (Mondadori, 2020), il nuovo romanzo di Fabio Genovesi (di cui trovate qui la recensione di Fabio Cozzi) è fatto di tante storie diverse: c’è prima di tutto quella di Fabio, un protagonista molto autobiografico a partire dal nome, ventiquattrenne impacciato che non ha ancora capito cosa vuole fare esattamente da grande e trascina stancamente i suoi studi di giurisprudenza. Ci sono poi quelle delle estati che, per diversi motivi, hanno avuto importanza nella sua vita, quelle dei personaggi che lo circondano e, soprattutto, quella di Marco Pantani e della sua grande impresa del 1998, quando il ciclista vinse, dopo aver superato una serie incredibile di avversità, il Giro d’Italia e il Tour de France nello stesso anno, impresa riuscita solo a sette corridori nell’arco di un secolo: l’ultimo è stato proprio lo sfortunato campione romagnolo, deceduto a soli trentaquattro anni nel 2004 per un presunto suicidio tramite un’overdose di stupefacenti, le cui circostanze restano ancora oggi piuttosto oscure.
Anche se piacerà in modo particolare agli appassionati di ciclismo, Cadrò, sognando di volare non è comunque un libro su Pantani, come ci ha specificato Fabio Genovesi presentando il suo romanzo ai blogger a Milano.
Da dove è nata l’idea del romanzo: dal luogo, dai personaggi, dalla figura di Pantani?
Questo romanzo mi è venuto in una maniera diversa, strana rispetto agli altri e ha fatto crollare tutte le certezze che avevo sul mio modo di scrivere: è proprio nato da solo e, anche ora che lo rileggo, ho quasi la sensazione che non sia del tutto mio. Non si dovrebbero avere preferenze sui propri libri, ma mi ricordo la fase della sua scrittura come un periodo felicissimo: mi alzavo alle sei del mattino, iniziavo a scrivere e proseguivo fino a mezzogiorno senza incertezze, senza mai cambiare struttura o tornare indietro. Tutto funzionava alla perfezione.
Il punto di partenza è stata la storia della ragazzina che si crede una gallina, forse perché in casa mia vivono due galline, che quando arrivo a casa mi saltano addosso per essere coccolate. Si parla tanto di cani e gatti come animali domestici, ma le mie galline sono molto affettuose, tanto che io mangio di tutto ma non ce la faccio proprio a mangiare la carne di pollo, soprattutto da quando mi è capitato di visitare uno di quegli allevamenti intensivi dove crescono in modo barbaro. Mi piaceva raccontare la storia di questa ragazzina che è felice di vivere in un pollaio, e da lì ho costruito tutto il resto, pensando poi al luogo dove ho svolto effettivamente il servizio civile tanti anni fa.
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I suoi romanzi sono sempre in parte autobiografici, e in questo caso il protagonista si chiama Fabio e si trova in un luogo simile a quello dove è stato lei. Quanto è scoperto il gioco?
Stavolta tanto. Penso che si debba scrivere di quello che si conosce, sono contrario alle scuole di scrittura perché penso che non puoi insegnare qualcosa che non sai fare bene nemmeno tu. Non esiste “un” modo di scrivere, perché ogni storia va raccontata in modo diverso. È come parlare del modo migliore per crescere un figlio: non esiste, perché dipende da troppi fattori.
Come Fabio, io allora dovevo andare in Spagna con gli amici ma sono finito a fare l’obiettore di coscienza in un posto sperduto. A volte nella vita ti capitano cose che ti sembrano negative, ma poi te la cambiano in meglio. Ho scritto apposta questo romanzo perché credo che l’errore più grande che facciamo è temere che un solo sbaglio ti possa cambiare la vita. Non esiste! Ogni giorno operiamo dei cambiamenti anche piccoli che modificano il nostro percorso, non servono sterzate brusche ma dicendo di sì o di no a qualcosa possiamo avvicinarci a quello che vogliamo.
Come mai le è venuta in mente proprio adesso questa storia legata al passato, che torna parecchio indietro nella sua esistenza?
Era una storia che volevo già scrivere ma avevo anche paura di sbagliarla, quindi l’ho lasciata da parte per un po’. Però rimandare qualcosa a domani è come decidere di non farla mai. Stavo scrivendo un altro romanzo, che a un certo punto ho interrotto per dedicarmi a questo.
Nel romanzo c’è una metafora molto importante, che è quella del seme che va e si sparge in giro per costruire qualcosa di nuovo. Come si fa a spargere negli altri il seme del coraggio, come in fondo ha fatto Pantani con le sue imprese?
Questo seme è più contagioso del Coronavirus e dell’Ebola, insieme agli atti gratuiti di bellezza. Io non credo molto nella politica, quanto nell’azione privata di ciascuno di noi. Se ti rimbocchi le maniche invece di parlare sui social e fai qualcosa di concreto, alla fine ne guadagneremo tutti. Ti metti a scrivere perché leggi dei bei libri, impari la musica perché ammiri dei musicisti: ognuno fa qualcosa perché è ispirato da quello che fanno gli altri. Io da bambino volevo imparare ad aggiustare le cose perché vedevo mio padre che era in grado di fare di tutto.
La bellezza e il coraggio per me sono contagiosi, ma se viviamo in una società teorica non combiniamo nulla. Mi spaventano i libri pieni di parole generiche e astratte, perché la mia idea di narrativa è concreta: i gesti concreti possono cambiare il mondo.
Mia madre ha fatto la terza elementare, però la sua migliore amica è un transessuale che da donna è diventata uomo, cosa che lei ha accettato naturalmente, restandogli amica come prima. Questo mi ha fatto capire tante cose più di mille discorsi. Così penso che le azioni di Pantani abbiano dato coraggio a tanta gente, che magari pensando a lui ha provato a fare cose che non avrebbe mai fatto.
A me è piaciuto moltissimo il personaggio di Don Basagni, per cui volevo sapere quanto c’è di vero e quanto d’inventato in lui.
In realtà ho incontrato davvero un prete come lui, anche se molte cose poi le ho inventate.
Sto bene con gli anziani: mio nonno aveva tanti fratelli e io sono cresciuto in mezzo a tutti quei vecchi di famiglia. Forse sono nato vecchio, però gli anziani in fondo sono quelli più spensierati: puoi comportarti come un bambino ma non devi rendere conto a nessuno e puoi permetterti economicamente di farlo. Gli anziani hanno già superato tutto quello che tu temi. Mi piacciono soprattutto quelli che sono in apparenza ruvidi ma poi in realtà sono pieni d’affetto per te: anche se non ho più i nonni veri, mi occupo volentieri degli anziani che conosco, come la mia vicina di casa novantenne.
Una delle cose negative delle città è che giovani e anziani fanno vite separate, in locali diversi, mentre nei piccoli centri finiscono tutti nello stesso bar e si frequentano senza barriere. Le divisioni sono un male della nostra società.
Oggi essere anziani è più difficile perché il mondo cambia troppo in fretta: io da ragazzo ero molto più vicino a mio nonno di quanto oggi sia vicino a me mio nipote, che ha solo venticinque anni meno di me.
L’anno scorso lei ha seguito il Giro d’Italia e poi il Tour de France come opinionista. Quest’esperienza ha influito in qualche modo sulla stesura del romanzo, oppure lo aveva scritto prima?
Lo stavo già scrivendo, e questo per me ha costituito un problema. Non volevo scrivere un libro su Pantani perché ne hanno già scritti tanti, né tantomeno un libro di rivelazioni su di lui. Volevo semplicemente raccontare quello di lui che abbiamo visto tutti seguendolo in televisione, anche se magari non ce n’eravamo accorti oppure l’abbiamo dimenticato, perché oscurato dalla tragedia successiva. Il problema della vita di Pantani è che molti si ricordano solo il suo finale drammatico e si sono dimenticati tutto il resto.
Non è un libro per gli appassionati di ciclismo, che queste cose che ho scritto le sanno già. Al Giro ero in effetti a contatto con persone che l’avevano frequentato, a partire da Garzelli che era uno dei suoi compagni di squadra, perciò la tentazione di fargli domande era molto forte, ma non ho voluto farlo per non essere condizionato e non mettere poi nel libro quei retroscena che lo spettatore di allora non poteva conoscere.
Si è fatto un’idea sulla morte di Pantani?
Sono rimasto alla mia idea di sempre. Le indagini sono state fatte malissimo e di sicuro le cose non sono andate come ci è stato raccontato, ma penso che lui abbia cominciato a morire il giorno in cui è stato fermato per doping al Giro d’Italia. Non è stato in grado di reagire, come magari avrebbe fatto qualcun altro. Molti che sono stati trovati positivi sono tornati tranquillamente a gareggiare, mentre lui si è spezzato, ma è anche la prova di come in genere siamo tutti cattivi, pronti a esaltare una persona e a farla cadere nella polvere con la stessa rapidità. È diventato una vittima di un sistema infernale che lo ha trascinato in una serie di processi. Del resto, Coppi era stato crocefisso solo perché si era innamorato di una donna sposata.
Mi ha colpito la vena di tristezza che percorre il libro, a partire dalla figura di Pantani di cui non possiamo dimenticare la fine, ma anche nei rapporti tra Fabio e la sua famiglia.
A me non piacciono i libri solo tristi o solo comici. Mi piacciono le storie che mescolano riso e pianto, come succede nella vita. Resto spesso colpito dalla soggettività dei lettori, da chi mi dice di aver trovato un mio libro o molto divertente o molto triste. Siccome questo romanzo parla dell’incoraggiamento al fare, al buttarsi nella vita, se fosse tutto positivo non sarebbe sincero, perché non è detto che a chi si butta le cose poi vadano del tutto bene. Quindi qui c’è un po’ di tutto, dal dramma alla commedia.
Non si può dire in assoluto che la vita è bella, però se hai voglia di vedere il bello alla fine lo trovi. Ci sono persone che non sono predisposte alla felicità e non la troveranno mai.
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Il passato che torna come un’onda è un altro tema tipico dei suoi romanzi.
Il tempo è la mia ossessione. Sono convinto che non esistano passato e presente, ma un unico mare in cui navighiamo. Facciamo tante cose perché influenzati sempre dal nostro passato, così come ci muoviamo per il nostro futuro. In definitiva, il presente è il tempo più debole di tutti, spinto dal passato verso il futuro.
A me piace molto che il passato torni e diventi presente, come quando s’incontrano due persone che si erano perse di vista per tanto tempo. Il passato per noi è una cosa enorme, perché costituisce tutto il nostro bagaglio personale, a partire dalle persone che abbiamo amato e non ci sono più. Io credo ai fantasmi e sono convinto che le persone morte mi parlino ancora in qualche modo.
Ma il fatto di dare tanta importanza al passato non fa cadere nella trappola della nostalgia? Non è controproducente?
Per me la nostalgia è sbagliatissima, soprattutto quando la usano per convincerti a comprare qualcosa perché è “come una volta”. Il messaggio che tutto fosse meglio in passato è sbagliatissimo, però può essere positivo capire che qualcosa di bello del passato possa ripresentarsi oggi in altre forme. Se una cosa mi ha fatto stare bene in passato, posso cercare anche oggi qualcosa di analogo che mi faccia stare bene come allora. Il passato va bene quando diventa una forza propulsiva.
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