C’è vita dopo la morte? La risposta di un filosofo
Sul morire (sottotitolo: Lezioni di filosofia sulla vita e la sua fine) di Shelly Kagan (Mondadori, traduzione di Aldo Piccato) è un libro che raccoglie le ventisei lezioni sulla morte che il filosofo Kagan ha tenuto nel corso di un semestre alla Yale University.
Attraverso l’approccio filosofico Kagan vuole farci riflettere su ciò che nella vita conta davvero, sulle paure irrazionali che ci attanagliano, sui recinti mentali che ci costruiamo per sfuggire alla realtà delle cose. Un libro pieno di domande e di spiegazioni che parte da una semplice domanda: «C’è una vita dopo la morte?». L’interesse dell’autore si rivolge essenzialmente a questioni di carattere psicologico e sociologico sulla natura della morte, o meglio: sul fenomeno della morte per poi passare alla seconda importante domanda: «Chi sono io? Che genere di cosa sono io?». A questo punto dedica alcune lezioni al Fedone di Platone dove Socrate, dopo il processo e la condanna, vuole convincere i suoi allievi che la parte più importante di lui non morirà mai. Kagan prende avvio da un presupposto: se esiste l’anima, essa dove risiede? Dove ha la sua collocazione? Non siamo un semplice ammasso di carne e ossa, afferma il filosofo, deve esserci qualcosa di immateriale dentro di noi. Ma come può qualcosa di immateriale occupare un posto dentro di noi? E in definitiva: dentro dove?
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Il tema della collocazione spaziale di un’entità immateriale è solo uno degli aspetti interessanti discussi da Kagan che non nega che esista qualcosa di immateriale che contraddistingue la vita degli esseri umani. Ma ogni persona è essenzialmente un corpo che fa cose magnifiche come ragionare, emozionarsi, innamorarsi. E dunque è possibile che se «finisce» il corpo, finisce tutto quanto? Sarebbe una spiegazione troppo semplice. Kagan introduce quindi uno degli argomenti più interessanti della sua discussione, quello dell’identità attraverso il tempo.
«Cosa fa di te la stessa persona oggi, tra una settimana, tra venti anni, tra quaranta anni e magari dopo che sarai morto? Una dieta potrà renderti diverso (fisicamente, psicologicamente), ma sei sempre la stessa persona. Allora: cosa fa di te quella stessa persona? Non il corpo, perché cambia».
Quindi non siamo solo corpi, dobbiamo avere anche qualcosa. E questa cosa è l’anima? Ma l’anima non esiste. Non ci sono sufficienti ragioni per credere nella sua esistenza.
«Ma chiedersi se c’è una vita dopo la morte equivale a chiedersi se c’è una vita dopo la fine della vita. La risposta è piuttosto ovvia. È come chiedersi alla fine di un film cosa succederà nel film».
E allora, dalla metafisica si passa all’etica, o meglio alla value theory come la chiama Kagan e comincia a occuparsi della nostra atavica paura della morte. Attraverso alcune teorie e molti esempi tenta di spiegare la sua posizione, soprattutto cerca di spiegare a lettore in che senso e in che modo noi consideriamo la morte un male. È la volta quindi di introdurre il pensiero di Epicuro riguardo la paura della morte e quindi del poeta latino Lucrezio che fa sua la teoria del filosofo greco per cui quando c’è la morte noi non ci siamo, quando noi ci siamo la morte non c’è, quindi è inutile averne paura. Kagan dice che la morte, partendo dalla teoria della «deprivazione» è un male soltanto se ci priva delle cose buone che la vita avrebbe potuto darci e a proposito cita il filosofo britannico Bernard William, esponente della corrente edonistica, il quale afferma che nessun tipo di vita potrebbe essere per sempre desiderabile e attraente, alla lunga diventerebbe tediosa e atrocemente dolorosa. Spinoza credeva che, se soltanto riconoscessimo il fatto che ogni cosa che avviene nella vita avviene necessariamente, potremmo mantenere una certa distanza emotiva senza lasciarsene affliggere.
Pertanto esiste una vita dopo la morte? Cosa significa «sopravvivere»? Ci sono frasi che ripetiamo spesso senza renderci conto della portata del loro messaggio. Una di queste è: «Ognuno muore solo». Ognuno muore solo vuol dire che, se anche hai persone intorno, chi muore sei tu. Niente di più falso. In un campo di battaglia tanti muoiono insieme. Ognuno muore solo significa che non puoi condividere la tua morte con altri. Anche questa affermazione è falsa. Nei suicidi collettivi si condivide la morte. E allora cosa vuol dire la frase? Ognuno muore solo vuol dire che nessuno può prendere il tuo posto? È la volta di Freud:
«In definitiva, la nostra morte sta oltre la nostra capacità d’immaginazione, e ogni volta che proviamo a raffigurarcela ci accorgiamo che in realtà sopravviviamo come spettatori. Perciò, nella dottrina psicoanalitica, si potrebbe osare di porre questo assioma: nessuno crede alla propria morte. O, il che è lo stesso: nel suo inconscio, ognuno di noi è convinto della propria immortalità».
Ma se fosse vera l’affermazione di Freud non sarebbe possibile dunque prendere sul serio la nostra morte. E Kagan spiega con un esempio perché ciò è assurdo:
«Sono il membro di un’associazione che si riunisce ogni giovedì. Oggi è giovedì ma non potrò esserci per un altro impegno. Secondo Freud non posso pensare che la riunione si stia svolgendo senza di me perché mi immaginerei presente come spettatore.»
La morte resta il mistero più profondo della nostra esistenza, ma per consolarci ci convinciamo che la morte non è la fine di ogni cosa. Ma questa è appunto un’auto consolazione. Noi uomini siamo macchine, afferma Kagan, e in quanto tali destinati a romperci. E quando la macchina si rompe tutto finisce e quindi anche la nostra vita finisce. Allora la domanda che dobbiamo porci è: come dobbiamo vivere? Abbiamo il dovere di non sprecare la vita? E allora, questioni etiche come l’eutanasia e il suicidio come devono essere affrontate? La maggior parte della gente pensa che bisogna essere pazzi per suicidarsi. Ovviamente la prima cosa da fare è distinguere il piano della razionalità da quello della moralità e solo dopo questo distinguo può scaturire tutta la discussione a proposito di questa questione.
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Sul morire è un libro stimolante, provocatorio e divertente in certi momenti. Il tono è informale e il linguaggio colloquiale perché, come afferma lo stesso Kagan, la morte è sì un argomento molto serio, ma non per forza bisogna discuterne o scriverne in una pesante e prolissa prosa accademica. Una linea di pensiero molto valida e oggi la migliore auspicabile affinché certi argomenti possano valicare le aule delle università e i simposi degli esperti in materia per raggiungere un pubblico più vasto. Da Platone a Cartesio, da Nagel a Nozick, Kagan ripercorre tutte le riflessioni sulla morte accompagnandoci alla scoperta di un senso nuovo, più consapevole delle cose. Perché, come egli afferma:
«Possiamo essere tristi perché moriremo, ma questo sentimento dovrebbe essere compensato dalla consapevolezza di quanto siamo stati fortunati per avere avuto l'opportunità di vivere.»
Per la prima foto, copyright: Aron Visuals su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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