Breve elogio atipico: “Operetta” di Witold Gombrowicz
«Mi ha sempre affascinato la forma dell’operetta, a mio modo di vedere una delle più felici che il teatro abbia prodotte. Se l'opera ha qualcosa di goffo, d’irrimediabilmente pretenzioso, l'operetta, nella sua sublime idiozia […] vola sulle ali del canto […] ed è, secondo me, teatro perfetto […]»: si legge così, nella Premessa dell'autore a Operetta, opera teatrale in tre atti, ultimo lavoro di Witold Gombrowicz.
Se ne vuole qui fare un breve elogio atipico, come da titolo: “breve” perché la prolissità è uno dei più grandi mali del mondo, “elogio” si spiega da solo, ma “atipico” è fondante.
Gombrowicz (1904-1969) pone a precedere il testo una Nota sulla recitazione degli attori e sulla regia. nell’ambito della quale scrive «Effetti d’uragano, vento, lampi, alquanto retorici all’inizio, si trasformano al secondo e soprattutto al terzo atto in uragano reale. Occorre che le scene scespiriane del terzo atto siano patetiche e tragiche»; e, in effetti, la tragedia è una delle polarità che informano Operetta; l’altra è l’ironia: volontaria, dello sguardo rassegnato del drammaturgo che dispone i suoi pupi; involontaria, di questi pupi (pupo io, pupo lei) che tanto si agitano, cantando e urlando, laddove comunque obbediscono alla sola legge che può regnare: quella del crollo.
Anteguerra: Agenore vuole conquistare, sedurre, Albertina la carina, e così escogita di mettersi d’accordo con un “mariuolo”, per fingere di aver sventato un furto ai danni della bella, addormentata su una panca. Il piano sembra star funzionando, ma la giovinetta scambia la mano fintamente ladrociniante per una mano seducente e indagatrice che le scruta il corpo. Così, a monte il piano di Agenore. Ulteriormente poi stigmatizzato dall'arrivo di Flor, maestro di moda, re della vestizione. Certamente la trama non finisce qui, sviluppandosi in un groviglio pantagruelico allo stesso tempo esilarante e straniante. Ciò a cui in assoluto è più impellente porre attenzione è la dicotomia tra vestiti e denudati, tra coperto e scoperto, che innerva la creazione e la conduce sul terreno impervio della rappresentazione della caduta. Caduta delle ideologie, messa in scena analogicamente attraverso la consunzione strutturale di un castello, soprattutto nel terzo atto. Ma anche caduta morale, imbarbarimento, estrapolazione di manifesta animalità.
Operetta è, come molte altre grandi opere, e anche a differenza di altrettante, continuamente contraddittoria: questa sorta di Valhalla, abitato dai numerosi personaggi che danno vita ad una sfrenata danza di morte, è un “gran teatro del mondo”, solo che del Siglo de oro non c'è più nulla, neanche metaforicamente. Come nel racconto di Poe in cui la Casa Usher lascia intravedere una fessurazione poco prima di precipitare rovinosamente, nell'opera di Gombrowicz scorgiamo sin dall'inizio una stortura, una sotterranea sovversione, una tragedia che si approssima. E che si sostanzia nelle ultime scene, di orgia funesta, di suprema bestialità, di canto paradossale.
Operetta è un requiem consapevole della sofferenza senza requie che avrebbe incendiato l'Europa; un dono alla sublime ignoranza: nel senso etimologico del termine.
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