Braccianti, una vita al limite – L’occhio di Ahmed
La parola bracciante è il participio presente di un verbo che non si usa: bracciare, adoperar le braccia per far qualcosa. Cosa? Raccogliere, eradicare, acinellare, potare, pulire, trasportare, scartare… Pietire una paga da fame per un lavoro da schiavo.
L’Italia è, tra i Paesi europei, quello con il numero più alto di braccianti assunti in nero, senza contratti e concentrati in alcuni grandi punti di raccolta fuori delle città, chiamati non impropriamente Ghetti.
Conosciamo Ahmed, un marocchino, a Rosarno, dove qualche anno fa una rivolta di braccianti centrafricani fu sedata dalle pistolettate della ‘ndrangheta e dei caporali. Ahmed vive in campagna, in un capannone abbandonato ma controllato dal sistema.
«Come te la passi, Ahmed?»
Ahmed ha una trentina d’anni e una lunga carriera da bracciante. Si trova qui, adesso, perché tra poche settimane inizia la raccolta degli agrumi nella Piana di Gioia Tauro.
«Quando rientro dal Salento sto sempre meglio. Laggiù c’est un infer!»
Ahmed è stato a Nardò a raccogliere pomodori, quest’estate che un sudanese è schiattato per il caldo e il superlavoro. Nella vita dei braccianti in Italia la dimensione sanitaria è bandita. Solo quando un bracciante sta davvero male, allora interviene il sistema a occuparsi di lui… a pagamento, ovvio.
«Sto riposando, in questi giorni, perché non fa ancora freddo. Devo recuperare le forze…»
Evidentemente la salute di Ahmed, il suo corpo, assumono sempre più la forma e la postura dei vecchi dei nostri paeselli agricoli: la curva sulla schiena, i polpastrelli induriti e le impronte digitali intrecciate e corrose dagli acidi, un’andatura sbilenca e lo sguardo, lo sguardo!, fiacco.
Mi ricorda un altro bracciante che ho incontrato qualche mese fa a Eboli, in Campania, mentre chiudevo Ghetto Italia. La stessa rassegnata dipendenza dalla volontà della natura e del padrone: un destino orbo di libertà.
«Mi devo far vedere da un dottore quest’occhio», dice mostrandomi l’occhio sinistro.
Sull’iride una cortina, come di polvere e una macchia.
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«Ce l’hai da molto?»
«Da un anno, ma non c’ho i soldi per farmi vedere»
Qui, a Rosarno, come in tutta la Piana, spesso intervengono i volontari di Medici per i Diritti Umani (MeDU) a curare i braccianti. Ma una visita specialistica e un’eventuale interruzione del lavoro sarebbero una iattura, per Ahmed, e lui lo sa e aspetta che la natura faccia il suo corso. La stampa ha raccontato i morti, ma non i feriti, quelli che maturano col tempo malattie croniche, che portano i segni di questa guerra che si chiama bracciantato. Ahmed vive all’aria aperta, anche d’inverno, e paga per un materasso umido e strappato sotto una copertura di cemento spaccato e amianto. Ahmed lascia una parte del suo salario da fame al sistema… Lascia salario e salute.
«Cosa pensi di noi, Ahmed?»
Alza le spalle e scuote la testa.
«Sinceramente», insisto.
«Perderete tutto, se continuate così. Noi che lavoriamo in campagna non ce la facciamo più. E voi non lavorate come noi»
Annuisco. È la verità. A furia di ridurre il costo del lavoro e di sottoporlo a un regime di sorveglianza dentro la grande cornice commerciale costruita dalle multinazionali della distribuzione e dell’agroindustria, anche gli schiavi se ne vanno. E con loro se ne andrà l’agricoltura, la raccolta, la rendita.
Mi alzo e gli chiedo di fare un giro. Passeggiamo ai bordi di un agrumeto dove i frutti si ingrossano placidi davanti agli occhi ammalati di Ahmed.
«Ma tu una famiglia ce l’hai?», gli domando.
«Sì. Ce l’ho io come ce l’hai tu», risponde e sorride.
Be’, in fondo qualcosa ci accomuna in questa offensiva differenza sociale che ci divide.
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