“Bloodsong” di Allen Ginsberg
Settant'anni fa, a partire esattamente dal dicembre del 1943, un Allen Ginsberg non ancora diciottenne dava vita a lettere e appunti, teneva un diario, trascriveva sogni e riflessioni. Nell'estate successiva, il suo amico Lucien Carr uccideva e poi gettava nel fiume Hudson David Kammerer, altro componente del “circolo dei Libertini”, come lui definisce il suo gruppo all'interno di questa raccolta di scritti.
Bloodsong, da poco edito in Italia da ilSaggiatore con la traduzione di Monica Martignoni e uscito in contemporanea col film Giovani ribelli di John Krokidas (non a caso l'immagine in copertina immortala Daniel Radcliffe, che nella pellicola ha vestito i panni di Ginsberg), è il titolo di un romanzo incompiuto, contenuto in questo volume omonimo e articolato in cinque parti differenti. Ginsberg racconta, come dice il curatore del testo e autore dell'introduzione James Grauerholz, «l'alba della sua vita di poeta», e di quando «c'erano solo cinque spiantati e aspiranti libertini»; ci sono poi le conversazioni con Kerouac e Burroughs, gli incontri con Carr e Kammerer, i vagabondaggi, le risse dentro e fuori i bar, gli effetti delle sostanze e dei farmaci, i fumi dell'alcol, le ambizioni e i progetti. Tutto questo, prima degli anni Cinquanta, prima che esistesse la letteratura beat e ai primordi dello stile di vita beatnik, prima che venissero dati alle stampe titoli come Il pasto nudo, Sulla strada e Urlo. Già dalla lettera scritta al fratello maggiore, nelle pagine iniziali del Libro del martificio (in sostanza il diario di Ginsberg, il cui termine, coniato da Kerouac, è la fusione tra martirio e sacrificio), ecco la visione del giovane poeta intenzionato a sbronzarsi il sabato sera e impegnato in letture del calibro di Anna Karenina, Tom Jones e Paradiso perduto. Man mano che si va avanti nella lettura, il testo si arricchisce di citazioni e riferimenti, così spuntano Ritratto dell'artista da giovane di Joyce e il Tonio Kröger di Mann, poi i pensieri di Freud e Nietzsche, i versi di Rimbaud e Whitman, ma anche la musica di Mozart e Brahms, la pittura di Gauguin, il surrealismo e il dadaismo.
Se vogliamo farne una questione stilistica e formale, non siamo dalle parti della violenza allucinata e perturbante dell'Urlo, né da quelle del maturo e toccante requiem di morte di Kaddish (peraltro opere raccolte all'interno di uno stesso volume sempre pubblicato da ilSaggiatore nel 2009). Bloodsong non è un poema e non vuole esserlo, ma semplicemente un resoconto romanzato sulla vicenda dell'omicidio di Kammerer, nel quale Ginsberg, ne narra i fatti antecedenti e i momenti successivi, parlando di sé in terza persona.
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È, dunque, un'opera frutto del Ginsberg meno conosciuto, quello degli esordi, della formazione, quello che ancora doveva affinare la sua scrittura e trovare la sua modalità comunicativa. Per Ginsberg, infatti, l'arte era soprattutto comunicazione, ancor prima che espressione. «Arte = espressione di sé conscia, selettiva e creativa, che risulta quindi potenzialmente comunicativa», sentenzia nel testo, e ancora «Per un artista è uno spreco creare arte non comunicativa».
In pratica, il suo parere era diametralmente opposto a ciò che, invece, affermava Carr, ovvero che «L'arte non è comunicativa ma solo espressione di se stessi in modo creativo» (l'intenzione dell'artista sarebbe quindi per Carr quella di soddisfare se stesso, anche se il vero artista non può mai essere soddisfatto). Ma d'altra parte sono infinite e condite di insulti le discussioni con Carr riportate in Bloodsong, nelle quali i due si sfidavano a colpi di stilettate su argomenti come questo oppure su estetica e morale, nichilismo, talento e mediocrità, per dirne qualcuna.
La poetica di Ginsberg intendeva solo perseguire questo obiettivo, quello di comunicare senza andare a caccia di consensi né complimenti (tant'è che recita le parole «Burroughs approva la mia poesia. La mia stima per lui è calata immediatamente»). Bloodsong comunica in primis l'atmosfera maledetta che lo pervade, qualcosa che passa prima come una sensazione sottopelle e poi diventa bruciante realtà attraverso la “Scena della morte” (nella penultima parte “Decadenza e «oscenità»”). Questo è Allen Ginsberg, signore e signori, arte condensata in un urlo lancinante di dolore. Del resto, citando le sue parole, «La vita ci ferisce, quindi anche l'arte deve ferirci».
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