“Bling Ring”: apologia della vacuità
Sofia Coppola non è nuova, per nulla, alle rappresentazioni crudeli e inquietanti delle derive della società dell’immagine. Da Il giardino delle vergini suicide (dal romanzo di Jeffrey Eugenides) a Lost in Translation, da Somewhere a Bling Ring, per l’appunto, lo sguardo della regista statunitense non ha mai perso di vista le conseguenze dell’“americanità”.
Nel caso di quest’ultima fatica, lo spunto è dato da una storia vera, raccontata in un ampio articolo pubblicato nel 2010 su «Vanity Fair». Un gruppo di adolescenti, interpretati, tra gli altri, da Emma Watson e Taissa Farmiga, tutti di buona famiglia, tutti figli dei social network, più ancora che di MTV, o TMZ, decidono, a un certo punto, di introdursi nelle residenze delle celebrità e iniziare a “prendere in prestito” vestiti e oggetti.
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Al di là di ogni possibile considerazione, sempre troppo generica e poco circostanziata, sul degrado morale delle nuove generazioni, la realtà è che ad andare in scena è una compiuta e terrificante vacuità, prodotta da sensualissimi “dei falsi e bugiardi”: Paris Hilton, Lindsay Lohan, Miranda Kerr, tra gli altri.
L’incursione è condotta con ritmi serrati, attraverso una regia tanto coerente quanto dinamica e vivace. E, in fondo, quello che più è da mettere in evidenza, è un fatto innegabile: i corpi di questi adolescenti sono (iper)testi permeabili alla sovrascrittura. Il loro credo passa per le strade di Los Angeles, tra le colline di Hollywood, e allo stesso tempo attraversa le highway telematiche.
Gli idoli, in Bling Ring, sono frutto di un integralismo come un altro; e il sistema che li alimenta senza sosta, è il medesimo sistema che dà nutrimento a un mondo sempre più “rappresentato”.
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