“Billy Summers”, l’ultimo fossile di Stephen King
Le storie sono come fossili sepolti, esistono già, sta all’autore tirarle fuori dalla terra causando il minor danno possibile. Parola di Stephen King che, aprendo la sua sconfinata cassetta degli attrezzi da cercatore di tesori (nel famoso saggio On writing), ci dice che i romanzi nascono dalla combinazione di tre elementi fondanti: il flusso degli eventi che costituiscono la narrazione, la descrizione della realtà in cui si muove la storia e i dialoghi che danno vita ai personaggi. La trama non fa parte di questa lista, poiché la costruzione ex ante di uno schema in cui incardinare la storia, farebbe, secondo l’autore di storie indimenticabili come Misery, La zona morta eIl miglio verde, perdere autenticità ai personaggi e alla voce narrante.
Immaginiamo che Stephen King abbia costruito la sua ultima fatica letteraria (Billy Summers– edito da Sperling & Kupfer con la traduzione di Luca Briasco) allo stesso modo. Il flusso degli eventi che porta Billy Summers, sicario dal cuore tenero assoldato – con una cifra milionaria – per uccidere un collega, è potente e vitale. Fatti, fatti, fatti e ancora fatti, un flusso di eventi strapazza e alla fine sconvolge il piano di Billy che pensava con questo ultimo incarico di ritirarsi. Billy è meticoloso nella preparazione e attento a non mostrare i suoi punti deboli a nessuno.
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Amante della letteratura e lettore accanito, gira con un fumetto nella tasca dei pantaloni e modifica il suo modo di parlare per corrispondere all’identikit che i suoi clienti hanno in mente (l’ex marine in cerca di un modo veloce per guadagnare tanti soldi). Eppure, con questo incarico, Billy sembra compiere tutti gli errori di un principiante: fa amicizia con i suoi vicini di casa mentre si prepara all’omicidio, affezionandosi ai loro figli; inizia a credere davvero alla copertura che gli viene assegnata, lo scrittore esordiente, scrivendo un libro autobiografico che fa venire allo scoperto tutte le sue ferite; aiuta una ragazza che viene abbandonata davanti alla sua porta in una notte di pioggia, facendo saltare la sua copertura. Più errori fa, più imprevisti gli capitano, più il lettore empatizza con lui. È così che Stephen King trasforma il prototipo di un cattivo nell’eroe “positivo” della storia, con i fatti.
Anche la descrizione della realtà in cui si muove la storia è sempre presente, precisa senza essere didascalica o predominante in perfetto stile King, bravissimo a farci vedere una città, un bosco, un appartamento o il viso di una persona attraverso pochi immediati particolari che ne determinano la funzione e il carattere, lasciando a noi e alla nostra immaginazione il piacevole compito di riempire gli spazi vuoti.
E poi ci sono i dialoghi. Stephen King sostiene che non si può mentire con i dialoghi, un lettore capisce subito se sono “veri”, quelli che potrebbe orecchiare per strada fra due persone che litigano, ridono o corrono mano nella mano passandogli accanto. E non possiamo che essere d’accordo con lui. I suoi dialoghi sono i personaggi. Leggendoli capiamo subito chi sta parlando, di che umore è, se è in imbarazzo, arrabbiato, felice, speranzoso. E lo capiamo attraverso un linguaggio dove l’aggettivo si sfila per concedere la strada al sostantivo che da solo identifica e potenzia l’azione. In questo Stephen King è maestro. Potranno non piacere i suoi personaggi o le sue storie, ma difficilmente potremo dire che i suoi dialoghi non siano realistici, facendoci subito immedesimare con i suoi personaggi.
È così che in poche pagine ci siamo già affiliati al clan di Billy Summers, anche se è un assassino a pagamento e frequenta gangster. E tifiamo per lui dall’inizio alla fine, travolti dal flusso di eventi che Stephen King intreccia gli uni negli altri lasciandoci senza fiato. E spesso non sappiamo perché leggiamo questa storia che sin dall’inizio sembra portarci verso una fine precisa, ma non ci interessa, non è la destinazione a premerci, quanto il viaggio, la possibilità di restare in compagnia di Billy e della miriade di personaggi che l’autore ci offre in dono, riuscendo sempre a personalizzarli, a farceli toccare.
Si è scritto molto di questo ultimo libro di Stephen King, che si sia allontanato dalla sua vena horror e pulp per abbracciare un classico thriller alla Grisham, altri hanno visto nel personaggio di Billy Summers lo stesso King che cercherebbe, con questo romanzo, di redimersi agli occhi della critica internazionale che l’ha sempre etichettato come autore di “genere”, come se questa fosse una pecca da cui redimersi.
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Stephen King è un grande scrittore, capace di divertirsi anche e soprattutto quando crea, di lasciare libero il flusso della storia, senza incatenarsi in generi e aspettative. Potreste dire che se lo può permettere perché famoso, vero, ma penso lo abbia sempre fatto e comunque se lo sia meritato.
Io so che questo libro dovevo proprio finirlo e ogni volta che lo mettevo sul comodino perché ormai era notte fonda e il giorno dopo non sarei riuscito ad alzarmi, lo facevo con un senso di colpa, come se le mie poche ore di sonno non valessero la necessità di sapere come andava a finire la storia.
«La scrittura è sempre al suo meglio se è a metà fra gioco e ispirazione». Beh, Mr. King, obiettivo raggiunto.
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