Aver nostalgia del futuro. “La locanda dell’ultima solitudine” di Alessandro Barbaglia
«Si può avere nostalgia del futuro?», si chiede nel corso di un’intervista Alessandro Barbaglia, autore de La locanda dell’ultima solitudine, il suo romanzo d’esordio edito da Mondadori. Per il trentacinquenne libraio-scrittore di Novara, appassionato di giochi di parole, la risposta è sì e su quello che a prima vista potrebbe sembrare un nonsense, una locuzione a effetto che evoca situazioni paradossali, lui ci costruisce addirittura un romanzo. Il personaggio protagonista di questa storia si chiama Libero ed è un artista della dilazione, un esperto dell’arte di procrastinare, uno che si crogiola nell’attesa, come un bambino che conta i giorni che lo separano dal Natale, delibando il piacere dei possibili doni che troverà sotto l’albero. Nel 2007 Libero prenota un tavolo alla Locanda dell’ultima solitudine; curiosità: la prenotazione è per dieci anni dopo. Da ottimista integrale e persino un po’ contagioso, Libero è sicuro che nel frattempo la sua vita cambierà nel migliore dei modi. Non potrebbe esser diversamente per uno che procede in linea retta per la sua strada, abbracciando il mondo con un nomen omen come il suo. Se fosse stato per sua madre Libero si sarebbe chiamato chissà come ma poi, alla nascita, rischiò di morire soffocato dal cordone ombelicale. L’ostetrica lo liberò e lo sollevò per i piedi e la madre chiese: «E perché non piange?». «Perché è contento. Contento d’esser libero.»
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Soprattutto, Libero, si allenava ad aspettare lei, che avrà labbra rosse come il Nebbiolo, il vino buono che aveva scelto con cura nell’enoteca. Mentre aspetta con piacere e dedizione al tempo che trascorre, Libero abita nella Città Grande, in una casa che ha scelto di dipingere di blu; l’abitazione è quasi vuota, tranne che per la presenza di un baule. È stata la vicina a lasciarglielo, tutto bianco e vuoto. Dentro Libero ci trova un biglietto da visita, con stampato l’indirizzo della Locanda dell’ultima solitudine, un locale molto speciale che si affaccia su un promontorio, costruito interamente col legno di una nave mancata. Nel locale è disponibile solo un tavolo per due; in cucina c’è Enrico e l’uomo con i baffi serve invece in sala. L’amore per le attese, quella sospensione compiaciuta del non-essere, il gioco sottile e raffinato del non-realizzato è per Libero un dolce e rassicurante adagiarsi nella non-compiutezza della sua vita che si traduce anche nello spazio vuoto della sua dimora. La presenza del baule lo destabilizza. «[…] …e se poi dovessi romperlo?», chiede preoccupato. Lena, la sua vicina, lo rassicura: «[…] Ma non abbia paura di rompere le cose, sa? Nella vita anche le cose migliori, quelle che sembrano andare sempre per il verso giusto, sono giuste perché qualcuno le aggiusta, continuamente. E non si potrebbe aggiustare nulla, nella vita, se prima non si fosse rotto, lo sa?». Ecco che in Libero la comune concezione dell’horror vacui è del tutto ribaltata: a far paura non è il vuoto che promette, lieve, molteplici variazioni sul tema, allettanti sviluppi della sua condizione esistenziale; a Libero provoca ansia il riempire (di oggetti come di persone o di storie) la vita, perché quel “pieno” evoca il peso schiacciante di una realizzazione incontrovertibile (una tra infinite) e l’esser vincolato ai propri ceppi individuali.
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A fargli compagnia, in quella che sembra essere, dal principio, un’attesa senza fine, è il suo cane, un randagio che Libero aveva avvicinato quasi per caso, e altrettanto per caso lo aveva chiamato Vieniquì. Gli era sembrato un nome troppo pieno d’ansia e di comando per uno che amava le attese come lui, ma quel nome viveva di un segreto: solo Libero sapeva chiamarlo bene, Vieniquì. Gli altri lo chiamavano “Vieni qui!” e il cane non aveva orecchie per chi non sapeva chiamarlo. Per Libero è un guaio se sbagli il nome delle cose con cui scegli di vivere. Vieniquì ama perdersi e Libero è spesso costretto a cercarlo, su e giù per la Città Grande, ma quella volta capitò che Vieniquì si perdette per più di un giorno e Liberò iniziò a preoccuparsi, anche perché stava piovendo a dirotto. Qualche tempo dopo lo vide in televisione, durante un comizio del sindaco, al guinzaglio di una giovane donna estremamente bella. Era la figlia del sindaco della Città Grande e si era occupata, premurosa, del suo cane. Poteva essere lei la donna che avrebbe diviso con Libero il tavolo presso la Locanda dell’ultima solitudine?
I due prendono a frequentarsi e la figlia del sindaco finisce per stabilirsi con Libero nella casa blu. «Che strano aspettare per anni che qualcuno metta a posto ogni cosa e poi, quando accade, quando tutto è in ordine, sentirsi un poco fuori posto!». Libero si scopre turbato, ma forse si sbaglia. Forse l’amore è proprio questo, un ordine, e bisogna farci l’abitudine. C’erano, comunque, strani segnali; al di sopra della montatura dei suoi occhiali blu lui vedeva la figlia del sindaco un po’ sfocata. Lei era sempre tremendamente bella, ma sfocata. C’era, in più, questa cosa che tollerava con fatica: lei che cercava di richiamare Vieniquì ma il canide non voleva saperne di ascoltarla. Perché la figlia del sindaco non lo chiamava bene; gli urlava a gran voce: «Vieniquì, vieni qui». Questo non aveva senso.
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O è forse Viola la donna che siederà con Libero al tavolo della Locanda dell’ultima solitudine? Solo il trascorrere degli anni potrà rivelarcelo (o la lettura del romanzo, vedete un po’ voi). Viola vive con la madre Margherita nella Casa del Petalo, sulla collina di Bisogno, e anche lei aspetta. Aspetta di trovare il coraggio e la forza di andarsene e di non guardarsi indietro. A Bisogno i fiori si scordano e tutte le donne della famiglia di Viola, che portano un nome floreale, si tramandano i segreti e le tecniche per accordare i fiori. Viola scrive lettere a suo padre, lettere destinate a non esser lette, perché molto tempo prima, senza un’apparente ragione, il padre ha abbandonato lei e la madre ed è scomparso nel nulla. Da allora Margherita ha iniziato a gridare, e ora pensa di affittare la Casa del Petalo a chi ha un dolore dentro e sente il bisogno di urlarlo nella discrezione più assoluta: stanze bianche e vuote, una poltrona per sedersi, un quaderno, una penna e un leggio per prendere appunti.
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Mi sono dilungato fin qui, insistendo sulle situazioni del romanzo e sull’eccentricità dei personaggi perché, in fondo, costituiscono la sostanza della narrazione di Barbaglia, che ci racconta con tenerezza una bella storia d’amore, condendola di suggestioni disparate. La scrittura è piana e diretta, opportunamente calibrata sull’obiettivo che intende perseguire: servire al lettore una fiaba moderna che mi ha fatto pensare, per alcune analogie, a Il favoloso mondo di Amélie, (2001), celebre film scritto e diretto da Jean-Pierre Jeunet. «Dal sublime al ridicolo non c’è che un passo», sosteneva in un celebre aforisma Napoleone Bonaparte, e l’istinto narrativo di Barbaglia – che ha letto buoni libri prima di cimentarsi nella scrittura, il che non è così pleonastico come sembra – convince anche nelle sue invenzioni più candide, orchestrando risonanze a volte inedite, con la raffinata delicatezza di un Miró. Con pochi tratti Alessandro Barbaglia è in grado di evocare atmosfere trasognate, di svelare le piccole-grandi magie del quotidiano, di sprigionare con rinnovata freschezza incanti dagli oggetti e dagli episodi più ordinari. Il romanzo è senza dubbio una lettura piacevole, e poi c’è questa strepitosa invenzione della Locanda dell’ultima solitudine, che l’autore ha immaginato a Punta Chiappa, a Camogli, a strapiombo sul mare, seguendo la suggestione di una leggenda di famiglia: un nonno partigiano dell’Ossola che voleva salpare per l’America, per fuggire ai tedeschi… ma forse sto travisando la finzione con la realtà. C’è, lo abbiamo già detto – ultima ma non meno importante –, un’infusione corroborante di sano ottimismo, un’inesplicabile nostalgia per il futuro che, in tempi di crisi come quelli che corrono, scusate se è poco.
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